Riprendo qui la sintesi dell’incontro di Cimolais, avvenuto il 12 aprile 2025. Una riflessione importante è stata fatta nel corso dell’incontro: più che di montagna si dovrebbe parlare di montagne, che rappresentano realtà diverse, ed il ruolo che l’Università di Udine svolge, in questo caso è pure quello di trasformare l’approccio scientifico in progettualità reale attraverso il ‘Cantiere montagna’ portato aventi dal geografo Mauro Pascolini, autore del volume ‘Next generation mountains’ che riassume la prima parte di un percorso di riflessione svolto assieme a componenti di altre realtà universitarie che propone spunti estremamente interessanti. Riporto qui l’intervento di Marco Bussone, che rappresenta come gli altri un testo su cui riflettere e su cui io mi permetto, in questo mio sito e se del caso, di fare una serie di considerazioni personali e discutibilissime per aprire un dialogo e mantenere vivo l’interesse per il tema. 

Marco Bussone, giornalista, è Presidente nazionale Uncem, l’Unione dei Comuni, delle Comunità e degli Enti montani, ed era giunto dal Piemonte per l’incontro. Egli è un interprete istituzionale della politica dei territori ma pure un profondo conoscitore delle esigenze diverse e differenziate degli stessi. L’argomento che gli è stato proposto è quello del ruolo istituzionale, in questa progettualità, per le comunità di montagna, variabilmente chiamate in Italia.

Dopo i ringraziamenti di rito anche ad Enzo Cainero “che ci richiama qui e ci guida”, ad Andrea Cainero per l’invito, a Uncem Friuli Venezia Giulia per averlo voluto a trattare le questioni politiche legate alla progettualità montana, Bussone ha iniziato il suo intervento sottolineando l’aspetto ‘politico’ nell’approccio ai problemi dei territori, togliendo di mezzo le questioni ideologiche. Quindi ha rivolto un saluto all’ ing. Carpenedo (1), già senatore, dicendo che egli è stato interprete di 30 anni di storia e progettualità inattuata, che è incominciata in quel lontano gennaio 1994, quando veniva ‘varata’ dal Parlamento la legge 97 del 1994 sulla montagna, di cui era il primo firmatario, in vigore dal febbraio dello stesso anno.

Essa è considerata l’ultima legge organica sulla montagna, ma poi il mondo è cambiato e la politica ha intrapreso altre strade. Così  la legge sulla montagna è rimasta un bel testo messo lì, da contemplare. Sono passati 30 anni- ha continuato Bussone –  in cui abbiamo avuto, in qualche modo, una attenzione fortissima verso le aree montane, ed allo stesso tempo sono arrivati provvedimenti importanti per i territori: la legge 158 sui piccoli comuni (3), il provvedimento sulla ‘green economy’ del 2015 (4), che per prima dice che il nostro Paese ha una crisi ecologica e che dobbiamo affrontarla insieme.  E- sempre secondo lui –  dobbiamo affrontarla tenendo conto di quanto Papa Francesco dice nelle sue ‘Laudato si’’ e ‘Laudate Deum’, e cioè di come far stare insieme giustizia sociale, riduzione delle sperequazioni non solo territoriali, non solo geografiche, con il cambiamento climatico, con la crisi climatica, che il Papa chiama tragedia climatica, devastante per i territori.

Marco Bussone mentre parla a Cimolais il 12 aprile 2025. Laura Matelda Puppini

E per quanto riguarda l’‘hub’ alpino, che è un ‘hub’ all’ interno dell’‘hub’ mediterraneo, noi dobbiamo fare delle scelte improcrastinabili visti i mutamenti in corso, che ci vengono imposte anche da quelle ‘provocazioni’, o meglio da quelle proposte di lavoro che vengono a noi dalle parole di Enzo Cainero nel video. La prima è la seguente: “Come riusciamo a garantire le opportunità ed a organizzare i servizi, quali trasporti e sanità, pur cambiando le esigenze delle comunità che vivono sui territori? Dobbiamo ripensare le scuole seguendo un modello diverso da quello proposto negli anni Ottanta e Novanta, in una logica territoriale di valle, dove la valle definisce un percorso di territorio che va oltre i ‘campanili’. E così sulla salute e sulle questioni che riguardano la percezione della salute e la sicurezza della salute, sia per quanto riguarda i medici di base che la medicina di soccorso emergenziale e di emergenza. E bisogna che venga garantita ad una popolazione sempre più anziana e portatrice di cronicità, che abita questi territori una sicurezza. E così sui trasporti.

Come si fanno a garantire opportunità sui servizi mentre la popolazione diminuisce e noi sappiamo che diminuirà sempre di più? Infatti abbiamo un abbandono ed una fragilità in tutto il Paese che ha portato ad esserci in Italia 55 milioni di abitanti, in diminuzione ovunque, ma nelle aree montane con tassi di mortalità molto più alti di quelli di natalità, ed una fragilità che cresce costantemente.

Ma, secondo Bussone, dobbiamo insistere su un punto ‘politico’: dove non arriva il privato arriva lo Stato, il che non è assistenzialismo né questua a mano tesa per perorare il “date più risorse per esempio alla Carnia piuttosto che alla Magnifica Comunità delle Dolomiti Friulane Piancavallo e Cansiglio, perché siamo i più sfigati”.  

Bisogna invece ripensare ad un modello organizzativo dei servizi con uno stato che investe di più e copre dei gap strutturali, che dà più opportunità e che sa ridistribuire anche quello che oggi è accezione soltanto urbana e politica. Fare questo non richiede filosofia ma richiede scelte e destinazione di risorse ma non senza provvedimenti legislativi, sia quelli già citati sia quelli che stanno arrivando, come il disegno sulla montagna che il 16 aprile giungerà alla Camera e successivamente verrà, quasi sicuramente, approvato anche al senato. (5). 

Ma questo impone alla montagna di non essere fragile, debole e divisa. E la questione dei campanili, posta anche da Cainero nel video, è un problema che riguarda non solo l’Italia, ma anche la Spagna, la Francia e la Germania, è un problema che è relativo ad un modello di paese. E unirsi fra comuni non è un ‘volemose bene’, o un stiamo insieme perché siamo più buoni, siamo più belli e attiriamo più risorse. È un modello di paese. Questo problema la Francia lo ha trovato: ha 36.000 comuni ed ha costruito un modello istituzionale dove i comuni lavorano insieme e non tutti i comuni, anche sulla base delle dimensioni, fanno le stesse cose.

Cimolais 12 aprile 2025. Foto di Laura Matelda Puppini.

Quando un comune è sotto i mille abitanti, bisognerebbe incominciare a dire che l’urbanistica non si fa più, che il piano urbanistico deve essere fatto insieme, che i servizi vengono regolati insieme. E questo non significa copaire quello che ha fatto la Fracia ma solo che si potrebbe impostare un modello di questo tipo. E la Germania ha migliaia di comuni, e mentre la Francia ha creato le Comunità di Comuni, la Germania ha organizzato il territorio in lander e al loro interno ciascun lander ha organizzato il suo territorio in circondari e confederazioni comunali. (6).

Ma invece l’Italia non ha cercato soluzioni stabili e definite al problema, e negli anni ha fatto sempre più interventi spot, togliendo un pezzo con le province prima, rappresentanza in parlamento poi, togliendo risorse ai comuni che, di fatto, hanno indebolito un sistema istituzionale senza avere una idea di paese, di quanto sia o possa essere federalista o centralista o autonomista.

E la domanda: come possano stare insieme più paesi in una valle, implica come risposta quale modello di paese c’è e quale modello di Stato. Ed è – sempre secondo Marco Bussone – un problema di democrazia, di come la democrazia si eroga sui territori. Perché prima bisogna definire il modello da attuare, e poi realizzarlo. E di conseguenza anche le Regioni faranno la loro parte.

Ma lo smantellamento drammatico delle Comunità Montane per motivi ideologici nel 2008 – 2010, ha fatto sì che in questo paese non abbia più un soggetto che riunisce i comuni per definire dei percorsi che diano risposte alle comunità.

E le conseguenze si sono viste: in FVG tre leggi regionali che ne hanno fatte più di Bertoldo nel definire cosa si sarebbe potuto fare, in Piemonte quattro leggi regionali che non hanno ancora risolto come 5550 comuni possano lavorare insieme, e così in tutte le altre regioni italiane. Ma la conclusione di questo è un sistema istituzionale democratico più debole. E così noi, di fronte alle grandi sfide dell’oggi: la riorganizzazione dei servizi, la crisi economica, non si vede come possano stare insieme i nostri territori per essere meno fragili, di fronte agli scossoni che sono giunti prima con la pandemia, poi con la guerra ucraina e poi con i dazi.

E la questione istituzionale e l’organizzazione democratica dello Stato sui territori montani e non solo è funzionale al modello di sviluppo che ci diamo, che non è più un modello fordista (7) ma è un modello di sviluppo dove noi utilizziamo le nostre risorse e le mettiamo a disposizione non senza un dialogo e un legame tra sistemi territoriali diversi. La montagna, se si chiude, è persa. Se le Alpi credono di essere un sistema chiuso ed un’isola sono perdute. Ed allora noi dobbiamo costruire relazioni.

Cimolais 12 aprile 2025. Foto di Laura Matelda Puppini.

Mi ha molto colpito qualche mese fa, la sindaca di Cavallino Treponti, che ha detto che, a suo avviso, si deve creare un sistema sperequativo territoriale perché il comune da lei retto che ha milioni di turisti in un anno, non può non pensare ad una comunità marina che definisce come un territorio si rapporta. Ed uno non può pensare solo al comune ove giungono i turisti e non pensare a quello che c’è intorno, creando una comunità marina, ci si perde.

E nel 1973, cosa volevamo fare creando le comunità montane? E cosa vogliamo fare oggi rafforzandole? Vogliamo costruire un modello di relazione, dove intorno ad un comune noi non creiamo campanilismo, ma intorno all’ identità di un comune noi creiamo relazione ma anche costruzione di nuova fiscalità (perequazione) per la comunità di montagna, in questo caso. Come possono stare insieme, per esempio, la Carnia e la Magnifica Comunità delle Dolomiti Unesco, la montagna friulana con la pianura e le grandi città del fondovalle? C’è già una relazione o non c’è? Come si può costruire questa relazione? Inoltre la città riconosce i sevizi ecosistemici e ambientali che la montagna dà, come lo stoccaggio dell’acqua, la gestione forestale, e altro? E questi servizi devono venir valorizzati e monetizzati con uno scambio ed una relazione, come è scritto nella legge nazionale 221 del 2015.  Se non si va verso questa via, si rischia di creare delle isole che, pur essendo capaci di lavorare insieme, non si relazionano fra loro. Ma questa relazione, per esempio per l’acqua può avvenire anche a livello normativo regionale.

E 120 città italiane si incontreranno a Torino per parlare della nuova programmazione europea, da cui dipendono molti finanziamenti, per esempio per l’agricoltura, per la salute, per nuovi asili nido ed ospedali.

La nuova programmazione europea, che ‘tira in ballo’ miliardi, comporta che le città vogliano contare ed avere quei soldi. E le comunità montane cosa dicono? Nella fragilità in cui sono state indotte con la distruzione di un sistema istituzionale, rischiano di rimanere con un cerino in mano, rischiano di non riuscire ad intercettare risorse ed a rimanere con un cerino in mano. Come si risponde a questo? Con una compattezza di valle ma anche con una valle che sa relazionarsi con un territorio urbano. E questo implica una strategia di valle ed una riorganizzazione dei servizi che può andare anche fino a Bruxelles, avendo costruito un territorio più unito e più vivo. E Bussone conclude definitivamente dicendo che, a suo avviso ricevere delle risorse su una progettualità condivisa di valle, avere la capacità di drenare delle risorse europee sul territorio, che passino attraverso lo stato o le regioni, è funzionale ad un uovo modello di vita e di sviluppo della montagna.

Ci deve essere, quindi, un nuovo protagonismo politico dei territori montani che non è che non esista oggi ma che è da riconfermare, da ripensare, da rigenerare all’ interno di una unità sostanziale. E così ha terminato il suo intervento.

Panorama montuoso lungo la via per Cimolais. Laura Matelda Puppini 

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Riflessioni personali anche ritornando indietro nel tempo.

Io ho trovato interessante, in questo intervento, il rimando alla crisi delle comunità montane e al conseguente vuoto di rappresentanza dei comuni montani, che la formano. E una aggregazione dei comuni fu ipotizzata dal Pd in Friuli Venezia Giulia, ed anche l’opposizione a detta aggregazione, vista come calata dall’ alto, fu uno dei cavalli vincenti della destra, leghista e di Fratelli d’ Italia ma forse anche forzista, per battere la sinistra ed andare al potere. E questo lo dico con cognizione di causa. Non solo: ha ragione Bussone a sottolineare che è finito il tempo in cui ogni comune, anche piccolo, va per conto suo, non guardando oltre ‘il suo naso’ fra un mare di inchini e di faide paesane, si fa per dire; è tempo che i comuni si aggreghino realmente e che si passi ad una organizzazione politica di ‘area vasta’ o che si ripensino le istituzioni già esistenti a cui affidare la  programmazione territoriale, basata sia sulla conoscenza delle esigenze della società montana unitariamente intesa, sia sulla tenuta ambientale evitando scelte incaute.  

Nel lontano 2012, in vista delle elezioni regionali, proponevo alla discussione i da me definiti “10 punti per la montagna”, da presentare ai candidati alla presidenza della Regione. Ma già dopo un paio di incontri questa mia scelta fallì per problemi di rappresentanza e per scarsa condivisione delle tematiche da parte di alcuni, che volevano discutere prima l’Unione dei comuni, argomento che io consideravo non di pertinenza, essendo, fra l’altro, i partecipanti agli incontri per lo più tolmezzini.

La traccia che proposi iniziava ricordando  che colui che viene eletto in comune come in provincia e regione è al servizio del cittadino elettore. Inoltre ritenevo allora che per programmare il futuro in questa piccola regione,  era, a mio avviso, importante “vedere” la stessa come un unicum, ove ripensare la distribuzione dei servizi in base ad un sistema strutturato a rete con accentramento di alcuni aspetti dei singoli servizi e decentramento di altri,  con centri di piccolo e medio raggio, ed avendo come fine primario il welfare della popolazione ed una risposta forte alle esigenze comuni di salute, istruzione, cultura, educazione, formazione permanente anche come scambio esperienziale. Ed il mio riferimento progettuale di partenza era l’antico piano urbanistico regionale dell’aprile 1976, su cui avevo pure scritto, allora, una serie di considerazioni pubblicate dal Messaggero Veneto il 29 marzo 2012 con titolo: “Principi validi ma scomparsi”. Notate gli obiettivi ecologici se così possiamo dire, che si poneva detto piano: «la difesa del suolo e dell’ ambiente; la formazione di grandi sistemi di verde; la riqualificazione delle fasce costiere marine, lacunari, fluviali: la salvaguardia, il potenziamento e la qualificazione di tutti i suoli non urbani e non necessari per la rete urbana, intesi come supporti integrati per le attività umane complementari; la valorizzazione e difesa particolare della montagna. La montagna svolge infatti un ruolo fondamentale per quanto riguarda gli equilibri naturali ed idrogeologici in particolare; si impone, pertanto, una politica organica a sostegno di essa ai fini della difesa idrogeologica». E questo ho ripreso dalla mia lettera ma è all’interno della stessa, ben più lunga, citazione dal Piano regionale 1976. Ed allora la giunta era presieduta dall’avv. Antonio Comelli, pure prima partigiano, ed era direi centrista. 

E già nei tre forse incontri che si tennero presso il ‘Caratel’ a Tolmezzo, emersero alcune problematiche collegate ai ’10 punti’  -Difficoltà a gestire produzione e commercializzazione; è necessario svincolare la commercializzazione dalla produzione, non potendo assolvere le stesse persone ad ambedue. -Problemi di tipo burocratico e lunghezza assolvimento pratica per accedere ai fondi U.E. Quali soluzioni? -Quale rappresentanza per la Carnia?  Unioni comuni, che ruolo e che funzione? -Banda larga tenendo conto però che la mancanza della stessa non è la causa di tutti i problemi montani, né può risolverli. -Utilizzo di quanto offre la regione in campo imprenditoriale. – Sì ad una sanità decentrata, che si regga, anche, sui poliambulatori di vallata. Ma ora siamo al caos progettuale, alla mancanza di programmazione, e in Carnia ci pervade una sensazione di essere abbandonati a noi stessi mentre l’ambiente è sempre più stravolto da idee balzane. 

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Inoltre in: Marco Bussone, ‘Green economy ed energie rinnovabili, nuovi fronti per lo sviluppo delle terre alte’, da me salvato come 7.1_BUSSONE.pdf nel 2019, Marco Bussone sosteneva che «Negli ultimi anni si aperto un nuovo percorso in cui la montagna muove passi determinanti per la sua storia. Nelle Terre Alte si trovano infatti i naturali “pozzi di petrolio” dell’economia verde, dal legno all’acqua. Biomasse, fotovoltaico, idroelettrico, eolico sono i settori che possono veicolare migliaia di posti di lavoro. Necessario portare gli impianti che producono energia da fonti rinnovabili là dove esistono le risorse, dunque nelle aree montane. Il “ritorno” economico nelle aree alpine può conseguentemente frenare lo spopolamento, generare nuova attenzione per mestieri dimenticati (come quelli legati alla filiera forestale), impegnare su innovativi fronti gli enti locali (Comuni, Comunità montane, Unioni di Comuni montani), con sostenibili intese tra le imprese e gli investitori. Lontani dalla colonizzazione delle risorse naturali degli anni Sessanta-Settanta, l’economia verde può avere una crescita compatibile con la realtà sociale e ambientale delle Alpi di oggi (e di domani)».  

Ma in Carnia, terra che fu ricchissima di acque, una terrificante politica ha negli anni quasi privato la montagna di questa ricchezza fondamentale per la vitaanche della pianura, non solo a causa della Sade e della sua centrale di Somplago ora A2A ma anche a causa dei contratti anche trentennali stipulati con qualsiasi privato per lo sfruttamento di ogni rio e corso d’acqua creando centraline a proprio uso e consumo, a cui invano alcuni si sono opposti. Pertanto il territorio carnico è ora quasi privo della risorsa acqua ma anche per quanto riguarda il legno, il bosco è trascurato, in parte venduto per un bianco ed un nero ad austriaci, tramite mediatori locali, che tagliano raso, mentre esiste pure il Consorzio Boschi Carnici che cerca di attrarre piccoli proprietari perché diano il permesso di taglio sul loro. Questa la situazione, come uscirne francamente non lo so perché ogni comune ha firmato da solo senza mai un piano di ricaduta sul territorio delle sue scelte, senza capire che sostenendo una politica di sfruttamento forzato senza controllo delle acque la montagna si sarebbe impoverita, ancor di più con il cambiamento climatico, e puntando solo all’immediato profitto svendendo risorse preziose. Pertanto ha ragione Bussone quando parla di una strategia più ampia ma qui non si sa più per sfruttare che cosa. E pare che ormai in Carnia si sia al “chi ha dato ha dato chi ha avuto ha avuto”, per rincorrere due lire. Ed è quella che io chiamo ‘la politica del becjut’. 

E per ora termino qui questo articolo dicendo che non vedo grandi prospettive notando anche il procedere della politica assessorile regionale che pare sia sempre quella dei comuni carnici: a chi chiede dà. E se erro correggetemi. 

Laura Matelda Puppini

 

 

 

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