Paolo Rumiz. Riflessioni sull’Europa.
Un giorno, in uno dei miei viaggi recenti verso Roma, ho notato un volume che ha destato il mio interesse tanto da acquistarlo e che consiglio. È del triestino, viaggiatore, romanziere Paolo Rumiz e si intitola “Il filo infinito. Viaggio tra i monasteri alle radici d’Europa” ed è stato edito da “la Repubblica” nel 2019.
In questo libro ho letto una delle riflessioni più interessanti sull’ Europa nel senso di Unione europea che qui ripropongo, anche in ricordo di Romano Marchetti, che tanto credeva in una Europa dei popoli.
Paolo Rumiz si trova nell’abazia di Orval in Belgio, famosa per la birra che producono i monaci, nel folto della foresta delle Ardenne, in compagnia di Giulio Groppi, ex- funzionario dell’Unione europea, figlio di Trieste pure lui, e quindi trasferitosi a Bruxelles.
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«Giulio abita con soddisfazione la sua patria adottiva bilingue; mangia e beve che è un piacere vederlo. Ha vissuto con entusiasmo gli anni belli di Bruxelles, quando l’Europa era un credo, un magnifico slancio. La sua strenua passione federalista deve aver sofferto non poco il cambio di atmosfera creato dall’ arrivo nella Ue dei paesi dell’ex- patto di Varsavia, poi dallo sbarco nei corridoi dell’Unione di una nuova generazione di diplomatici spesso arroganti ed incompetenti. Per non parlare dei nuovi politici, ipocriti al punto di votare provvedimenti che essi stessi avrebbero sconfessato in patria.
Io ho vissuto un’esperienza diversa, centrifuga, sull’altro lato del fiume, viaggiando nelle periferie. In questo viaggio, tu non sai quanto, Europa mia, ho sentito invocare inutilmente il tuo nome. Tu hai abbandonato Sarajevo assediata. I tuoi soldati hanno permesso il massacro di Srebrenica senza fare una piega.
Ti ho visto patteggiare con i dittatori di mezzo mondo, lasciar soli i rivoltosi ucraini, gli intellettuali turchi oppressi da Erdogan, i giovani serbi in marcia contro la gang nazionalista che tiene in pugno il Paese. Ora ti vedo lasciar morire i migranti in mare e fare del Mediterraneo la più grande fossa comune del Pianeta.
Tu, madre mia, hai generato Auschwitz, sterminato civili, scatenato guerre spaventose. È successo appena ieri, ma a noi “civilizzati” sembra già archeologia, orrore non ripetibile. E questo è orribile, perché la memoria dell’orrore è l’unico antidoto per evitare il suo ritorno.
La mia passione europea, spiego a Giulio, è nata da queste sconfitte, da questa disperazione, non dalla realtà di un quadro politico sempre più deprimente. Perché l’Europa è soprattutto un atto di fede.
Stefan Zweig, ci ricorda quell’immenso intellettuale iraniano in Germania che è Navid Kermani, visse l’inferno del nazismo e ne morì, ma con slancio messianico sognò l’Europa unita come terra promessa.
L’idea è sopravvissuta alla sua sconfitta, e anzi è nata da essa.
Quando nel 1851 Victor Hugo parlò di Europa unita all’assemblea nazionale francese fu sommerso dai fischi, ma l’Europa è nata ugualmente, è andata oltre la derisione di una maggioranza popolare incompetente. Gli Adenauer, i De Gasperi e i De Gaulle fondarono l’Unione sul disastro di due guerre mondiali e i corpi di cento milioni di morti.
Amico mio caro, se Helmut Kohl avesse dovuto basare sui sondaggi l’adesione tedesca all’euro, avrebbe rinunciato. Da grande statista, decise invece di aderire, rischiando l’impopolarità, sulla base di una semplice constatazione: suo nonno era morto nella Grande guerra ed era ora di dire basta. Egli aveva fede che la nuova moneta sarebbe stata un antidoto formidabile all’insorgere di nuovi conflitti.
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Viaggiando l’ho capito: l’Europa la ama chi non ce l’ha.
Non ho sentito nessun politico d’Occidente evocarla con la passione di una vecchia, poverissima pastora ucraina di nome Ljuba incontrata nelle terre del Dnestr. O con l’entusiasmo della gente di Tbilisi in Georgia, una sera in teatro, durante l’esecuzione della Nona di Beethoven, quando tutto il pubblico si è alzato spontaneamente in piedi per cantare a voce piena, in lingua originale, l’Inno alla Gioia. Impensabile a Roma, Berlino, Bruxelles. Come se il cuore del Continente abitasse non dentro ma fuori dall’Unione. A est della stessa Mitteleuropa. Nelle terre dove la cultura tedesca si è mescolata in modo indissolubile con l’ebraismo e la slavità.
L’Europa devi cercarla sulle frontiere. Un po’ come il cristianesimo: per capirne davvero il messaggio devi allontanarti il più possibile da Roma e spingerti nelle terre dove è minoritario, perseguitato e privo di tentazioni di potere.
Ma anche l’Europa di questo mio viaggio monastico ha poco a che fare con la “bolla bruxellese”. Pellegrinando ho scoperto qualcosa di antitetico ai ministeri, i palazzi di vetro, i briefing della stampa o gli alberghi pieni di lobbisti delle multinazionali, piazzati lì solo per bloccare la crescita dell’Unione.
Nella stessa Bruxelles basta uscire dallo spazio degli eurocrati, dal disumano neoclassico della grandeur coloniale, dai reticolati intorno al Palais de Justice, dagli archi di trionfo, dalle transenne, dal mondo dei badge e dei check – in, per scoprire un’altra città. E veder uscire dalle banlieue decine di migliaia di giovani in marcia per il clima, per madre terra, per l’accoglienza tra i popoli. Giovani che se ne fottono della differenza tra fiamminghi e valloni e guardano molto oltre le guerre tribali dei loro padri.
Persino a Bruxelles l’Europa è naturalmente centrifuga».
Da: Paolo Rumiz, Il filo infinito. Viaggio tra i monasteri alle radici d’Europa, la Repubblica, 2019, pp. 127- 129. Prima edizione Feltrinelli, marzo 2019.
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L’immagine che accompagna l’articolo è la copertina della prima edizione tratta da: https://www.ibs.it/filo-infinito-ebook-paolo-rumiz/e/9788858834558?lgw_code=1122-E9788858834558&gclid=Cj0KCQiAwf39BRCCARIsALXWETweuiwbyWlrVFT_hwIxQzHJ1GxWb7MpkQWXnUIcnqzi7-LZ7M2_negaAkqLEALw_wcB. L.M.P.
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