Donne svolsero un ruolo fondamentale come appoggio alla resistenza, anche se non sempre furono inquadrate nel movimento partigiano.

Vi furono quelle che raccolsero, pure sotto il tiro dei fucili tedeschi, i bigliettini che i militari lasciavano cadere dai vagoni che li portavano in Germania; quelle che dopo l’ 8 settembre fornirono vestiti borghesi ai militari in fuga, come la madre di Giovanni Marzona;  vi furono quelle che confezionarono indumenti, come le sarte dell’improvvisata sartoria nella miniera di Cludinico, guidate da Fiorenza Moradei (1), segretaria di Rinaldo Cioni (2); quelle che cucinarono provvidenziali polente o che portarono, con estenuanti viaggi, cibi ai partigiani, e spesso erano madri, sorelle, spose di guerriglieri per la libertà. E vi furono quelle che nascosero ricercati e ricercate, come per esempio Libera Strazzaboschi, donna tutta d’un pezzo di Pesariis, già portatrice carnica e operaia nei cantieri stradali nel corso grande guerra, che per settimane, nel lungo inverno 1944-1945, tenne nascosto in cantina il giovane garibaldino Balilla Nascimbeni (3), o come Catina, amica di Remo Colman, Volpe, che mise a disposizione dei partigiani del btg. Nassivera la sua stalla a Mione, perché potessero passare lì quei lunghi mesi invernali (4); o che ospitarono partigiani, come per esempio Ida e Gioconda Danelon (5), citate da Romano Marchetti. E vi furono donne che dettero informazioni a partigiani, passando veloci ed avvolte nei loro scuri scialli, come Rachele Diana Marchetti, donna timorata di Dio, che sussurrò a Mirko di non proseguire, perché vi erano i cosacchi ad attenderlo (6).

Madri cercarono di salvare i figli come quella che portò il proprio ragazzo lontano, nella gerla, coperto; donne che subirono angherie perché mogli di partigiani, come le spose di Antonino Moro (7) e Giacca (8), deportate, o come la sposa di Gianroberto Burgos, che fu schiaffeggiata violentemente dai fascisti (9); donne che si trovarono senza casa, senza beni, senza affetti, eppure andarono avanti (10).

«Da rilevare che nel periodo occupazionale – si legge su di una testimonianza firmata da Attilio e Flavio Puntel – ragazze, donne, si recavano, malgrado rappresaglie e pericolosità di ogni genere nel basso Friuli per l’approvvigionamento di grano e frumento, sia a proprio beneficio quanto per le formazioni. Dovettero subire rastrellamenti, (furono) sottoposte ad interrogatori e minacce, subendo pure fermi di giornate» (11).   Poi vi furono le partigiane vere e proprie, i cui compiti vengono definiti da staffetta, cioè da corriere (12), ma nella realtà molteplici. Alcune erano politicizzate, altre meno o per nulla, e spesso «Arrivarono impreparate, sprovvedute, ma impararono ben presto le leggi della cospirazione […]». (13).  

«La lotta partigiana vide le donne nei GAP e nei SAP, nelle formazioni di pianura e di montagna, nell’ organizzazione di scioperi ed agitazioni esclusivamente femminili, nelle carceri e sotto tortura, nella diffusione della stampa clandestina, nelle pericolosissime missioni di collegamento. Le donne furono saldissime maglie di una rete, rischiando più degli uomini […]» (14). Giravano con biglietti nascosti nella borsa della spesa, tra i seni, in altre parti del corpo o nei vestiti; giovanissime percorsero chilometri e chilometri in bicicletta, sfidando il brutto tempo, i posti di blocco, i pericoli di una rappresaglia, i bombardamenti (15).   

Elsa Fazzutti, Vera, posa vicino alla fontana di Forni di Sotto. Foto di Umberto Antonelli.

Storie di partigiane combattenti carniche.

 «Oggi è capitata da me Vera» …  (16). 

Così scrive Gino Pieri: «29 dicembre 1944. Oggi è capitata da me Vera; irriconoscibile, pallida, smunta depressa.

Vera (…) è una donna del popolo, ma non è una donna comune. Ha trent’anni ed è un tipico esemplare delle donne di Carnia, alte, robuste, salde nel fisico e nel carattere, rotte alle fatiche del lavoro ed alle inclemenze delle stagioni; ciò che non impedisce a Vera di essere una donna piacente.
È sposata e ha una bambina di otto anni. Il marito è stato sorpreso all’estero dalla guerra ed è rimasto bloccato in Nordamerica.
Io l’ho incontrata in uno dei casuali incontri che provoca la professione, e mi fece subito l’impressione di un tipo femminile d’eccezione.  Quando nel maggio scorso i tedeschi incendiarono Forni di Sotto […] pensai con rammarico alle sue probabili tribolazioni.

Due mesi dopo mi giunse un biglietto proveniente da Ampezzo; sua era la calligrafia, ma non il nome.  Poche parole: «Sto bene e vi saluto. Vera.» Era quanto bastava per farmi comprendere che essa aveva voluto tranquillizzarmi sul suo conto, e che era passata con i partigiani (il cambiamento del nome era significativo).

-Sono discesa a Udine per un incarico, e ho pensato di passare a salutarvi – ha detto entrando.
-Brava! Come è stato che siete andato via da Forni?
-Dopo quello che ci hanno fatto i tedeschi non si poteva più vivere. Certo avrete saputo quello che è successo il 26 di maggio.
-Sì so che hanno incendiato il paese. E come è andata?

Vera ha incominciato il suo lungo racconto. (…).

Quella sera io mi trovavo ad assistere una mia sorella che si era sgravata due settimane prima.
Quando ci hanno avvertito che si avvicinavano i tedeschi per la rappresaglia, ci siamo preparate a scappare via. Mia sorella, che era in stato di grande debolezza, agli spari è svenuta per lo spavento. Io me la son caricata sulle spalle, mia madre ha preso in braccio il più piccolo, e portava per mano la mia figliuola. Siamo corse in un burrone che è vicino al nostro paese e non si vede dalla strada e solo chi lo sa lo trova. Sistemate così al sicuro la mamma, le sorelle ed i bambini, ho pensato di tornare in paese per prendere, se mi riuscisse, la culla del neonato, ma appena arrivata alle prime case, i tedeschi mi hanno puntato al petto il fucile intimandomi di tornare indietro.
Verso mezzanotte, quando pareva che tutto fosse tornato tranquillo e gli incendi cominciavano a spegnersi, mi sono recata in un casolare che mi ricordavo di aver veduto nelle vicinanze, e ho visto che non era incendiato; allora sono tornata a chiamare la madre e la sorella e così ci siamo rifugiati al coperto e abbiamo passato il resto della notte sdraiate a terra sulla paglia.

Lidia De Monte ‘Nera’. (Elaborazione in b/n di una foto a colori inviatami da Mauro Fiorenza, suo nipote). Per ‘Nera’, cfr. l’intervista pubblicata su www.nonsolocarnia.info, intitolata: Mauro Fiorenza. Intervista a Lidia De Monte, la partigiana carnica “Nera”.

-Ditemi ora com’è che siete andata con i partigiani.

Quando è avvenuto l’incendio del paese, io avevo già avuto occasione di incontrarmi con loro e di fare ad essi qualche servizio; come la ricerca di viveri, la segnalazione della presenza dei tedeschi o di militi della repubblica, ecc. Dopo il disastro che colpì Forni, decisi di dedicarmi completamente al loro movimento. Così, dopo aver affidato la bambina a mia madre, ai primi di giugno partii con la banda di Aso (Italo Cristofoli della Val Pesarina) (17), che contava una quarantina di partigiani. Siamo andati in montagna e ci siamo insediati in una casera. Io preparavo il mangiare, scendevo in ricognizione per vedere se si avvicinassero tedeschi, mi recavo a portar messaggi ai piccoli presidi partigiani delle vicinanze.

 Feci questo servizio per poco più di un mese, e poi mi mandarono a chiamare dall’infermeria di Ampezzo, un casolare che era stato adattato alla meglio per il ricovero dei partigiani feriti. Vi sono rimasta sino ai primi di ottobre, disimpegnandomi alla meglio, e i compagni erano contenti di me. Ma poi il Comitato di Liberazione della zona mandò un’altra infermiera a sostituirmi e mi richiese per aiutarlo nei lavori di ufficio; allora dovetti occuparmi dell’opera di organizzazione e di collegamento, della provvista di viveri, dei vestiari, delle scarpe, di una quantità di piccole incombenze di ogni genere.

Verso la metà di novembre all’improvviso arrivarono i cosacchi. Qualche spia aveva certo rivelato la sede del comitato. La sera del 14 novembre, verso le ore 21, ci segnalarono una colonna di russi che avanzava rapidamente verso la nostra baita. Io stavo scrivendo, e appena seppi del pericolo imminente mi caricai lo zaino, saltai con gli altri dalle finestre, e con essi fuggii verso l’alta montagna. Fu una marcia terribile, durata più di sette ore nel buio affondando nella neve che rendeva irriconoscibili i viottoli, con continue scivolate e rischi di sfracellarsi nei precipizi. Il viaggio era reso anche più difficile dalla necessità di trasportare con noi a braccia due compagni feriti. Poco prima che facesse giorno arrivammo a malga Venchiaredo.

Dopo essersi riposati per qualche giorno, i compagni validi discesero per recarsi verso i presidi più sicuri. Restammo nella malga io, due feriti, un compagno che non era in grado di camminare perché aveva male ai piedi, e il cappellano don Giulio (18). Siamo rimasti isolati senza collegamenti per più di un mese, fino a pochi giorni fa. È stato il periodo più tremendo della mia vita partigiana. Abbiamo tanto sofferto il freddo, la fame e la solitudine. Le poche provviste che avevamo portate si esaurirono presto. Io quasi tutti i giorni scendevo ai casolari più vicini (ma erano tanto lontani) a cercare un po’ di cibo, e dovevo ogni tanto nascondermi per sfuggire alle pattuglie dei cosacchi che arrivavano fino in alta montagna. Il tempo che mi rimaneva libero dalla ricerca di cibo lo dedicavo ad assistere i feriti ed a cucire degli scarpetti di pezza per i compagni che avevano le scarpe ridotte inservibili.

Italia Ambrosio ‘Dana’, partigiana garibaldina. (Da Marina Cattaino, figlia).

Il 24 dicembre essendo alla fine di tutte le risorse, ed essendo ormai i feriti in grado di camminare, decidemmo di scendere per riprendere il collegamento con le formazioni. Però trovammo i russi che bloccavano la vallata e dovemmo rifugiarci in una grotta dove passammo, digiuni ed in una tristezza che non vi dico, la notte e la vigilia di Natale. Il giorno dopo tornammo indietro verso malga Venchiaredo, ma prima di arrivarvi deviammo per discendere nella direzione di Frasseneit: da quella parte trovammo la strada libera e potemmo così raggiungere il comando. Questo ieri mi ha ordinato di venire ad Udine con un incarico; io non mi sentivo bene, ma bisogna pure obbedire; eppoi ho pensato che così avrei potuto anche venire a darvi mie notizie.

Ma credetemi, dopo tutto quello che io ho veduto e sofferto in questo periodo, non sono più la Elsa che voi conoscevate, mi sento sfinita, ho male di stomaco, tossisco continuamente, ho le gambe gonfie… E il male fisico sarebbe il meno: quello che mi strugge è il pensiero che i migliori compagni che ho conosciuto sono tutti caduti: così Aso, il comandante del nostro gruppo, morto in combattimento, e così è morto Arturo (19), il dottor Magrini, con cui abbiamo spesso parlato di voi), Leone (20) si è ucciso perché circondato senza scampo dai tedeschi, Fuoco (21)  e Grillo (22) feriti gravemente da colpi di mortaio sono morti nella mia infermeria, dove è morto anche Boris (23)  per una setticemia dovuta ad una ferita infetta … Credetemi se vi dico che quando si son visti morire i più valorosi, ci coglie a volte la disperazione nera e ci si domanda se valga ancora la pena di vivere …. » (24).

Ed ancora: «Ero infermiera all’Ospedale partigiano di Ampezzo. In previsione dell’attacco tedesco dell’ottobre 1944, tale ospedale fu spostato a Cima Corso. In seguito, sotto l’incalzare del rastrellamento tedesco, l’ospedale si dovette chiudere e i feriti più gravi furono portati prima a Trentesin (a sud del Tagliamento) poi a casera Vencjarèt. I feriti che rimasero con noi (i più leggeri e quelli che potevano muoversi erano stati smistati in case private della zona di Ampezzo e località vicine: altri erano tornati alle loro case) erano circa una decina. Mancavano quasi del tutto le medicine: quel poco che potevamo avere lo avevamo, dopo mille cambi e passaggi da una mano all’altra, dal dott. Pieri (25) di Udine.

Rimanemmo con i feriti, dopo la partenza da Vencjarèt, dei reparti del Comando partigiano, io, Beltrame (Emilio) (26) e don Giulio (don Piccini).
I rifornimenti arrivavano così: mia madre ogni due/ tre giorni portava i viveri, attraverso gli stavoli di Cjaraes di Trentesin, lungo il Tagliamento, sempre in pericolo di venir bloccata da distaccamenti cosacchi in continua perlustrazione sulle mulattiere e i sentieri che corrono paralleli al fiume. Alle case Trentesin, (quota 582m.) mi recavo io e portavo a spalle il tutto fino alla malga (quota 1392 m.) con fatiche e disagi da non dire.

Dopo una ventina di giorni, i feriti si erano rimessi abbastanza da tentare la traversata del massiccio e scendere verso la pianura. Io personalmente li accompagnai, attraverso casera Mugnol, Cjamps e la valle del Viellia, all’abitato di Maleons, dove vennero presi in consegna da alcuni partigiani e, a piccole tappe, portati in pianura. Così tutti, come seppi dopo, poterono raggiungere le loro case. Compiuta questa missione, ritornai al mio stavolo di Cânal, sotto passo della morte, in attesa della primavera.» (27).  

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La Nina (28), che fece esplodere il fortino ….

Andreina Nazzi, Nina. (Immagine da: Pier Giuseppe Avanzato, Gente di Tumieç, racconti immagini poesie, Ed. Andrea Moro, 2004, p. 147. Proprietà Uliano Intilia, figlio).

«Andreina Nazzi, come tante altre ragazze sue coetanee, si trovò a vivere i suoi vent’ anni in un periodo storico difficile […].  La fame, le angherie subite dalla gente non la lasciarono indifferente» (29).

Andreina iniziò la sua attività facendo servizio informazioni, ai partigiani, sui vari rastrellamenti in atto. Quando però venne individuata, dovette salire in montagna, e, con nome di battaglia Nina, entrò a far parte del battaglione Cossutti della Garibaldi, comandato da Giulio De Monte, Zan Zan, e operante nella zona di Illegio. (30).
Venne incaricata di varie mansioni, fra cui alcune azioni di sabotaggio, che eseguì sempre da sola, per dare meno nell’ occhio.

«Molti sanno che i partigiani riuscirono a far saltare in aria il fortino di via Paluzza, posto di blocco strategico per gli accessi da nord alla città, ma pochi sono a conoscenza che a portate a termine quella fortunata azione di guerra fu una giovane donna, la Nina, appunto.
I tedeschi avevano blindato Tolmezzo, e quell’azione si presentava particolarmente difficile.

Nina, travestita da vecchia donna carnica, con ‘fazolet’, ‘grimal’ e ‘dalminas’, si presentò al osto di blocco con una gerla sulle spalle, nel cui fondo era stato messo dell’esplosivo, accuratamente occultato da un carico di patate.
Quando i militari chiesero alla Nina di esibire il permesso per poter entrare a Tolmezzo, lei disse di averlo dimenticato e chiese se, per favore, poteva lasciare lì la pesante gerla intanto che andava a prendere il lasciapassare. All’improvviso, come d’accordo, alcuni partigiani, dalle falde del monte Strabut, iniziarono un fuoco difensivo. L’inattesa pioggia di proiettili costrinse i militari a rientrare velocemente nel fortino, per proteggersi e rispondere al fuoco nemico, e si portarono dentro anche la gerla con il “suo” prezioso carico di patate. Intanto la Nina cercò di raggiungere un posto sicuro attraversando il Bût, verso Caneva. L’acqua era alta, ma la paura delle pallottole traccianti era più forte, e si ritrovò dall’altra parte senza neanche rendersi conto, lacera ma salva, mentre una terribile esplosione distruggeva completamente il fortino.
I nazifascisti, presenti all’interno del fortino, subirono molte perdite e diversi feriti. I Tolmezzini, ignari, pensarono all’ ennesimo bombardamento aereo» (31).

La stessa azione viene descritta anche sulla Relazione storica delle operazioni militari Divisione d’ Assalto “Carnia Nassivera”, assieme ad un’altra, che però non risulta in altra fonte ed è probabilmente una seconda versione, errata, della prima. (32).
Come spesso accade, però, le spie non mancavano ed ai tedeschi, in breve, giunse una segnalazione anonima, ma poi di autrice identificabile, che attribuiva ad Andreina Nazzi la distruzione del fortino di via Paluzza. Così Nina venne arrestata e portata ad Udine nelle carceri di via Spalato.
Rimase rinchiusa per due mesi nella terribile attesa di essere fucilata. Fortunatamente uscì da quell’atroce incubo salva, perché non fu riconosciuta dai testimoni (33).

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 Rododendro (34): abbiamo sepolto Renato Del Din.

«È una domenica sera di dicembre. – racconta Romano Marchetti – Un breve imbarazzo e poi Sara si avvicina: i fianchi, ancora fermi, riecheggiano movimenti leggiadri. Si siede. “Un caffè?” – le domando. Sorride. Una sensibile parte della sua bionda bellezza giovanile riemerge tra i danni del tempo. Le linee, piuttosto nordiche, di un corpo elegante si percepiscono ancora.
“Ecco – dice- proprio da qui, da questo caffè (35), i giovanissimi sono usciti per accorrere al funerale dell’ufficiale alpino bandito senza ancora un nome (36) altri erano nascosti lungo il marciapiede o dietro “quella porta” in ‘borg da muffe’. Così si è ingrossato il funerale, perché da ogni portico sono poi usciti i vecchi, donne e uomini a protezione dei giovani, in qualche modo, credo.

Rammento improvvisamente le parole di Renzo, l’autista del camion della Cooperativa: «Mi trovavo a passare con il camion della cooperativa carnica. All’incrocio della Caserma dei Carabinieri e della scuola professionale, debbo fermare il camion…ero solo in cabina. Un capitano dei carabinieri, un uomo piccolo e segaligno, tenta di portare i cavalli del carro funebre sulla circonvallazione, secondo il minaccioso diktat tedesco: con lui, mi pare, ci fosse anche il maresciallo (37) quello che avrà, poi, due figli nella Garibaldi, ma non ne sono certo. Un gruppo di donne lo contrasta. Gli strappano le briglie di mano, (…) ed indirizzano la carrozza sulla via principale». (38).

Sara Menghini – per la Prefettura (39) – ma il suo cognome è Menchini, si adopra a coprire di fiori il corpo nudo dell’ufficiale bandito, con altre donne dirige i cavalli verso la via principale, raccoglie la cifra per il luogo di sepoltura e la consegna in comune.

«Fuori pioviggina. (…). Sara riluce ancora – continua Marchetti – di qualcosa che va lentamente spegnendosi in un leggero imbarazzo […]. Tace Sara dell’eroico inverno oppresso dai cosacchi. Ha solo uno scoppio di risa quando le ricordo un suo spregiudicato inganno.
“Devo passare il ponte … mi aspetta il mio amore …” ed una strizzatina d’ occhio al capoposto del blocco sul ponte Avons. “Beh, …Non si può andare a fare i propri comodi? …” Così Sara passa il ponte di Avons, con addosso un messaggio per il btg. Tagliamento della Osoppo, che si era nascosto tra le pieghe del monte Verzegnis» (40). Marchetti non sa se ne abbia portati altri, ma si presume di sì.

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Esterina Rupil Wanda, poi sposa di Guido Maieron Pompeo, del gruppo comando della Garibaldi, al centro. (Foto pervenutami da Aulo Maieron, figlio).

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Marì (41), moglie di Vittorio Pezzetta comunista: quando i fascisti ci spararono…

«Qui, a Tolmezzo, erano tutti contrari al comunismo. Io e Vittorio eravamo come due clandestini, e vivevamo in due stanzette, in casa Marini in ‘Borg da roe’, di fronte la caserma della Milizia. Vittorio era conosciuto come oppositore del fascismo e subivamo minacce dai fascisti.

Un giorno, al coprifuoco, Vittorio si era sporto dal balcone. Un fascista, dalla caserma, lo vide, e gli urlò improperi. Vittorio rispose “Va fa’ un culo”, buttò giù il vetro della finestra e fuggì. Giunse la Milizia e, non avendolo trovato, mi prese ancora in sottoveste, e mi portò nella caserma Del Din che fungeva anche da carcere. Ed in prigione trovai pure ‘Rosute’ e Velia Nascimbeni.  Poi fummo liberate grazie a Vittorio, che era andato a perorare la nostra causa dai carabinieri.  E i fascisti spararono anche sulla casa di Renzo Musto. Dopo gli spari cambiai casa, e ci ospitò ‘Gusto’ Vidoni, dietro il Duomo. Infine trovammo alloggio in Chiavris, sempre a Tolmezzo.

Quindi, a causa delle continue intimidazioni, Vittorio si dette prima alla macchia, già dopo l’8 settembre 1943, quindi si unì ai partigiani ad Illegio. Poi si spostò verso la val But, nella zona di Sutrio. Io volevo raggiungerlo come convenuto, e mi incamminai verso Imponzo come mi era stato detto di fare, ed avevo appena passato il posto di blocco al fortino di via Paluzza quando esplose la gerla lasciata lì da Nina.

Quindi mi trovai al posto di blocco partigiano e fui fermata: mi chiesero chi fossi e, verificata la mia identità e saputo che ero la moglie di Dimitri, mi lasciarono passare ed avvisarono Dimitri che mi venne incontro. Preso il nome di copertura Marì, In un primo tempo andai con Vittorio a Pradibosco, quindi vissi gran parte del periodo partigiano assieme ad Italia, detta ‘Taliute’, Ambrosio, di Tolmezzo, nome di battaglia Dana, a Prato Carnico presso una famiglia e poi in una stanza, quindi ad Osais ed infine a Pesariis.
A Prato Carnico lasciammo ad una donna il nostro bimbo, e lì venne a prenderlo Antonietta, una parente, che lo via portò con sé.

 Quando giunsero i cosacchi e vi fu “la sommossa”, restai per tre giorni, su di una montagna, con Barba Toni e Lucia Cella, Mira, e quindi scendemmo allo stavolo di Osvaldo Fabian. Infine rientrai a Tolmezzo dopo che Vittorio fu catturato dai cosacchi, il 14 dicembre 1944». (42).

Partigiani e partigiane garibaldini, fra cui all’estrema destra, guardando, si nota Anna De Prato Pezzetta, Marì, detta poi ‘la postina’. Al centro in piedi: Lucia Cella Mira.  Provenienza dell’immagine: Anna De Prato Pezzetta, che ne ha concesso la pubblicazione.

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Mira (43), sui monti la libertà.

 «Già da un anno circa lavoravo nella Cartiera di Tolmezzo. (…) Noi donne ci toccava il lavoro più arduo, ci spostavamo per ogni reparto o nel piazzale a scaricare dal camion legname, lavoro pesante e pericoloso, oppure reparto spellatura. (…). Avevamo, oltre la capo reparto, anche i tedeschi che vigilavano, ed a loro si doveva ubbidire.  (…)». (44).
Lucia aveva un fratello e cugini partigiani garibaldini, ed incominciò a collaborare con loro. Ma fu segnalata, ed un giorno i tedeschi si presentarono a casa sua a cercarla. Così dovette prendere, precipitosamente, la via dei monti ed unirsi ai parenti ed alla compagnìa comandanta da Zan Zan (45), che si trovava in zona Illegio.

Mira chiese al Comandante in che cosa poteva essere utile e fece anche notare che era la sola donna fra tanti uomini e ciò la spaventava. «I compagni dovranno considerarti solo un compagno e guai a chi si dovesse permettere di considerarti una donna e farti qualche scherzo. Veglierò su di te siine certa» – rispose. Avevano bisogno di un’infermiera, e la convinsero a svolgere questo ruolo ad Ampezzo e non solo. Partecipò alla vita partigiana al fianco, spesso di Mario Candotti, Barba Toni (46), comandante di battaglione prima, di Divisione poi. (47).

«Dovevamo fermare un treno che andava verso Tarvisio e Austria, conteneva un carico di italiani, che li deportavano ed anche altre cose di valore. Noi si doveva bloccarlo a tutti i costi, così ci incamminiamo verso la montagna […]. I compagni collocarono sui binari l’esplosivo, e, a pochi metri di distanza dalla guardia Tedesca, attendiamo l’arrivo del treno […]. I compagni fanno scattare il cric ed il pilone d’ alta tensione cadde sulle rotaie, fermando così il treno. (…). Il fuoco nemico ci martellava di proiettili e ci bengala scrutavano la montagna, ma noi ci salvammo tutti, ci fu d’aiuto la pioggia che cadeva forte unita alla nebbia […]». (48). Poi Lucia fu mandata a fare il corso di infermiera ad Ampezzo, presso il dott. Zagolin (49), per ritornare, nel luglio 1944, al fianco di Barba Toni, in zona Illegio – Tolmezzo.

All’arrivo dei cosacchi entrava, sprezzante del pericolo, in Casanova, dove la popolazione non aveva voluto consegnare il latte delle vacche agli invasori, ed era pertanto stata “punita”, per salvare i feriti. (50).
«Non riesco a descrivere cosa trovai, case che bruciavano e feriti in ogni angolo. Avevamo poco tempo a disposizione per i colpi che cadevano, i tedeschi avanzavano a cerchio di cavallo; prendemmo un calesse e caricammo un po’ alla volta ben 52 feriti fra donne bambini e anche uomini. […] stavo per uscire da quell’ inferno, quando sento un gemito provenire da una cantina. Vi era buio, cercai quel corpo […]. Ma ecco altri colpi di mortaio che ci cadono vicino, cado io pure assieme a quel corpo […] dolorante mi rialzai, ripresi sulle spalle quel corpo e proseguii oltre la boschetta, (forse il boschetto n.d.r.) finalmente lì trovai il compagno che mi aveva aiutata e il mio comandante assieme al dottore. Caddi a terra sfinita e mi misi a piangere. (…). Non dimenticherò mai quello che si prova ad uscire vivi da quell’ inferno». (51).

Donne partigiane in Carnia. All’estrema destra guardando: Mira.

Quindi Mira seguì il suo battaglione verso Tramonti, e, pur essendo venuta a conoscenza che suo fratello stava male, non poté correre da lui per aiutarlo, ma dovette riprender la via dei monti indicata da Barba Toni per la salvezza, e rientra in Carnia. La marcia fu estenuante, e «ci voleva il coraggio della disperazione per non lasciarsi andare» (52). Infine giunsero sul monte Pura, in zona Sauris, dopo mille peripezie, portando con sé Andrea, ferito in un incidente con una moto senza freni. Quindi il ritorno nella zona di Cedarchis, ove evitò le troppe domande dei giorgiani per avere il lasciapassare, la vita rischiosa che continuava sulla porta di casa: il ritorno a primavera sui monti: i tedeschi che stanno raggiungendo Preone, un compagno che le muore tra le braccia e un altro che non ce la fa e se ne va dicendole di salutare per lui sua madre, la fine della guerra annunciata da quella bandiera americana che spunta, la liberazione, il dopoguerra. (53).

Lucia Cella Mira. Particolare dal gruppo di partigiani e partigiane garibaldini, pubblicato sopra. (Provenienza dell’immagine: Anna De Prato Pezzetta, che ne ha concesso la pubblicazione).

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Lida, con le armi in pugno.

Lida Lepre era figlia di una mugnaia, «donna forte, intelligente e piena di energia. Era di pochi principi e non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno».
La famiglia di Lida era antifascista, tanto che i parenti erano fuoriusciti in Francia. Lida partecipava, come tutte le ragazzine, ai ‘sabato fascista’, ma «teneva le orecchie dritte».

Le fu naturale iscriversi al partito comunista, le fu naturale affiancare il marito, Luciano Alfaré, nell’attività partigiana. (54). Lida, spinta da una profonda fede comunista, pur essendo sposata e con un figlio, iniziò la sua attività resistenziale distribuendo stampa clandestina, ma successivamente prese parte attiva alla resistenza, collaborando, con il marito, ad una serie di azioni nella zona di Rigolato. (55). 
Però stava spesso in paese, e diceva che «In paese era sempre meglio non girare armati anche perché si doveva stare molto attenti alle spie, perché il nemico non occorre andarlo a cercare tanto lontano, è sempre in paese vicino a te». (56).  

«Durante il periodo della Resistenza tutto quello che faceva mio marito lo facevo anch’io, – racconta – se per esempio sapevamo che sarebbe arrivato un rastrellamento prendevamo le nostre armi e ci rifugiavamo a mezza montagna dove i tedeschi non sarebbero mai riusciti a prenderci.
Io avevo una Berrretta, mio marito una Machinepistole. Io andavo in giro armata in rare occasioni […]. Portavo la mia pistola quando andavamo a fare degli incontri clandestini con gente che arrivava da altri comandi […]. (…). Si portava le armi anche quando venivano dei rastrellamenti ed eri obbligato ad andare in montagna […].

Nella polveriera di Rivoli Bianchi erano tutti compagni, ci si andava a prendere la dinamite, […], poi la si metteva dentro nei tubi e poi si minavano tutti i ponti. Tutti i ponti qua nella zona erano minati e pronti per farli saltare.

Abbiamo fatto saltare così il ponte di ferro di Comeglians e quando siamo tornati a casa dopo l’azione alla caserma di Sappada, siccome eravamo in pochi e dovevamo coprirci la fuga, abbiamo fatto saltare anche il ponte tra Sappada e Forni Avoltri» (57).  

Poi alla fine della guerra… «mi sono iscritta al Partito Comunista, ho organizzato il gruppo dell’U.D.I. e volevo anche candidarmi per le elezioni comunali, ma mio marito non ha voluto, non mi ha lasciato iscrivere alle liste elettorali» (58) ed è andato a finire che non mi sono iscritta neppure all’A.N.P.I..

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Giulia Nassivera, staffetta e portaordini garibaldina, prevalentemente operativa sul terreno, morta di tisi a vent’anni nel 1946. (Immagine da Pierpaolo Lupieri).

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Come ci narrano Mirella Aloisio e Giuliana Beltrami nel loro” Volontarie della Libertà” (59), in Italia ci furono ben 35.000 partigiane combattenti, 20.000 patriote, 70.000 donne nei gruppi di difesa della donna. E fra le donne resistenti 2.750 morirono perché cadute in combattimento o fucilate, 3000 furono deportate in campi di stermino, 4.500 furono arrestate e torturate. (60). (Ivi, p. 26).
Con la loro partecipazione alla Resistenza, in vario modo,  le donne, giovani e meno giovani, sognarono e toccarono con mano un loro nuovo protagonismo, un loro nuovo ruolo al fianco dei maschi, ma tutto terminò di nuovo tra fornelli ed accudire vecchi e bambini, rompendo un sogno. La Resistenza fu il più grande tentativo, in Italia, di creare una nuova generazione di italiane, ma così non fu.

Le donne partigiane anche in Carnia furono molte, anche se numericamente inferiori agli uomini, ed alcuni nomi li ho posti io nel mio elenco pubblicato su: “472 schede di partigiani garibaldini, uomini e donne che scrissero la storia della democrazia, operativi in Carnia o carnici”, leggibile su www.nonsolocarnia.info, altre, oltre queste, sono citate nei volumi di Flavio Fabbroni dedicate alle donne nella resistenza, infine esiste un corposo elenco curato da Nilla Martinis, figlia di Elio, che pubblicherò. Ma credetemi, ogni giorno si incontra un nome nuovo: per esempio recentemente quello di Teresa Vincentini, nome di battaglia Teresina, di Chiusaforte, operativa nella Garibaldi Carnia, di cui ben poco si sa, tranne che morì nel 1946 a causa di malattia contratta in guerra, poco tempo dopo la morte della sua bambina.

Ed al di là delle partigiane combattenti, nella Italia resistente, la rete femminile di sostegno alla lotta fu amplissima, e coinvolse donne di diversa età.

Laura Matelda Puppini

Note.

  1. Fiorenza Moradei fu poi segretaria presso la Direzione Didattica di Tolmezzo. (Cfr. Romano Marchetti (a cura di Laura Matelda Puppini) Da Maiaso al Golico dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nella resistenza italiana, Kappa vu ed., 2013, n. 37 p. 111).
  2. Rinaldo Cioni era allora il direttore della miniera di Cludinico di Ovaro. ( Laura Matelda Puppini, Rinaldo Cioni – Ciro Nigris, Caro amico ti scrivo…, in Storia Contemporanea in Friuli N. 44, novembre 2014).
  3. Testimonianza non registrata di Elda Gonano in Petris, residente a Pradumbli, nipote di Libera Strazzaboschi, 15 febbraio 2015.
  4. Testimonianza di Gelindo Paolini, Dingo, in: Fondo testimonianze, Busta 1 Fascicolo 7. Divisione Garibaldi, Carnia, Archivio IFSML Udine.
  5. La casa di Ida e Gioconda non Durigon ma Danelon, madre e figlia, era posto di tappa sia per osovani che garibaldini. (Cfr. Romano Marchetti, op. cit., p.86).
  6. Testimonianza orale di Romano Marchetti a Laura Matelda Puppini, 2012.
  7. Antonino Moro, del P d’A, era un partigiano osovano, (nome di battaglia Toni II ed altri), fu uno dei primi militari che, dopo l’8 settembre 1943, si diedero alla lotta armata formando, a Godia, un gruppo autonomo di resistenti che confluì, poi, in Giustizia e Libertà ed infine nella Osoppo. Azionista, restò comunque fedele a Verdi, almeno secondo Romano Marchetti. Al tempo della ritirata dalla Zona Libera del Friuli Orientale, si trovava ivi con nome di battaglia Neri Vittorio o solo Vittorio. (Giannino Angeli, Zona libera orientale, Nimis – Attimis – Faedis, ed. A.P.O., 2005, p. 62).  Dopo la fine della guerra esercitò ad Udine la professione di geometra. Morì agli inizi degli anni ’70. (Fonte: Romano Marchetti).
  8. La moglie di Mario Toffanin Giacca, madre di due bimbi e non consta partigiana, venne catturata nell’aprile del 1944 e deportata ad Auschwitz. (cnj.it/documentazione/varie_storia/ComandanteGiacca.pdf).
  9. Testimonianza orale di Romano Marchetti a Laura Matelda Puppini, 2012. Gian Roberto Burgos di Pomaretto, nome di battaglia Flavio, capitano di fregata della Regia Marina Italiana, comandante della territoriale Osoppo nell’inverno 44/45 ed a disposizione del C.L.N., era nato a Fossano, in provincia di Cuneo, il 9 novembre 1901. Nell’estate 1942 fu gravemente ferito mentre era al comando del regio cacciatorpediniere ‘Gioberti’. «Dopo il ricovero in ospedale, venne in convalescenza a Mione. Doveva reimbarcarsi a La Spezia il 10 settembre 1943, ma giunse l’8 settembre. Così si unì ai partigiani dell’Osoppo e, fra l’altro, divenne amico di Romano Marchetti. Per l’azione svolta come partigiano gli venne conferita, nel 1949, la medaglia d’argento al Valor Militare. Dopo la guerra lasciò la Marina col grado di capitano di vascello (poi ammiraglio di divisione della riserva) e divenne dirigente della Shell italiana presso la sede centrale di Genova. Morì ad Udine il 25 aprile 1970. (Fonti: Alberto Burgos, figlio di Gian Roberto e I.S.T.E., Luciano di Sopra, Rodolfo Cozzi, Le due giornate di Ovaro, Aviani & Aviani ed. p.46 e p.109).
  10. Eleonora Buzziolo, Partigiane in Friuli, in Storia Contemporanea in Friuli, n. 35, 2004, p. 62.
  11. Testimonianza dei compagni Canin, Attilio Puntel e Gioia, Flavio Puntel, datata Cleulis 1° marzo 1979, in: ‘Fondo testimonianze’, Busta 1 Fascicolo 7. Divisione Garibaldi, Carnia, Archivio IFSML Udine, documento 1.
  12. Flavio Fabbroni, Donne e ragazze nella Resistenza in Friuli, Publicoop editore, 2007, p.31.
  13. Eleonora Buzziolo, Partigiane in Friuli, op. cit., p. 69.
  14. Ivi, p. 67.
  15. Ivi, p. 66.
  16. Elsa Fazzutti di Forni di Sotto, nome di battaglia Vera, garibaldina, capo infermiera nell’ospedale partigiano di Ampezzo, poi infermiera in quelli di Cima- Corso – Stavoli Nembuluzza e di Trentisin, (Mario Candotti, La seconda fase dell’offensiva tedesca contro la “Zona Libera della Carnia e del Friuli” Operazioni militari nella destra orografica del Meduna, nell’alta val Meduna, nelle Prealpi Carniche Occidentali, in: Storia Contemporanea in Friuli, ed. I.F.S.M.L., n.8, 1977, nota 46, p. 247) ed anche staffetta partigiana. Per la sua attività durante la resistenza, ottenne, nel 1963, la croce al merito di guerra e nel 1990 il diploma d’onore ai combattenti per la Libertà d’Italia. Dopo la liberazione gestì la locanda ‘Al Boschetto’, a Forni di Sotto. Morì a Tolmezzo nel mese di giugno del 2010. (Scheda biografica di Laura Matelda Puppini, in: Romano Marchetti, op. cit., p. 394).
  17. Italo CrIstofoli, nome di battaglia Aso, falegname ed operaio di Prato Carnico anarchico poi forse comunista, nato a Prato Carnico il 24 novembre 1901. Giovanissimo, fu raggiunto da una prima denuncia per diserzione alle armi. Forse anche a seguito della stessa, nel 1923, espatriò clandestinamente in Francia, dove venne segnalato per la sua attività politica, peraltro marginale. Condannato per fatti attribuitigli nel 1929 dal tribunale della Senna, venne espulso dallo Stato e rientrò in Italia nel 1931. Fu però immediatamente fermato a Tarvisio perché doveva scontare la condanna per diserzione. Di nuovo libero, venne arrestato nuovamente nel 1933, assieme ad Osvaldo Fabian, Guido Cimador, Luigi D’Agaro ed Edoardo Monaci per aver partecipato ad una delle rare manifestazioni apertamente antifasciste svoltesi in Carnia, a Prato Carnico, in occasione del funerale dell’anarchico Giovanni Casali (In proposito cfr. AA.VV., Compagno tante cose vorrei dirti…Il funerale di Giovanni Casali anarchico, Prato Carnico 1933, Centro Editoriale Friulano, 1986). Per questo fatto fu condannato a 5 anni di confino. Dopo il 25 luglio 1943, si unì al gruppo comunista operante nella zona e collaborò per organizzare la lotta e diffondere la stampa clandestina. Segnalato ai nazifascisti come oppositore, si diede alla macchia, creando, all’inizio del 1944, con Aulo Magrini uno dei primi reparti partigiani autonomi nella Val Degano. Successivamente aderì alla Garibaldi diventando, pure, comandante di battaglione. Morì nel corso di un attacco alla caserma tedesca di Sappada, il 26 o 27 luglio del 1944, essendo fallita l’azione a causa di delatori che avevano avvisato il nemico. In val Pesarina vi era chi affermava che egli avesse svaligiato, in Francia, dei treni per finanziare l’anarchia, e la maestra Maria Cleva, almeno così par di ricordare a Romano Marchetti, affermava che fosse andato anche a svaligiare l’ufficio postale di Prato Carnico, di cui suo marito era il direttore. Ma i “si dice”, allora erano molti, come ora del resto.
  18. Probabilmente don Luigi Piccini, nome di battaglia Giulio sacerdote anche della Brigata Garibaldi/ Carnia, ma operativo, pare, inizialmente nella brigata Ippolito Nievo. (Cfr., “60° della resistenza. “Giulio Contin, il partigiano Richard – Riccardo, commissario politico della brigata Ippolito Nievo”, sesto volume di: Fonti di memoria – a cura della Federazione Provinciale dei Democratici di Sinistra di Padova “Enrico Berlinguer” con la collaborazione del centro studi “Ettore Luccin, 33). Si sa che nell’inverno 1944- 45 fu ferito. (Mario Candotti, La seconda fase dell’offensiva tedesca contro la “Zona Libera della Carnia e del Friuli” operazioni militari nella destra orografica del Meduna, nell’alta Val Meduna, nelle Prealpi Carniche Occidentali, in: Storia Contemporanea in Friuli, ed. I.F.S.M.L., N.8, 1977, nota 46, p. 247).
  19. Aulo Magrini, nome di battaglia Arturo, garibaldino, medico di Prato Carnico, nato a Luint di Ovaro il 25 settembre 1902. Figlio di un medico di idee liberali e progressiste, si laureò in medicina ed iniziò, in periodo universitario, ad interessarsi al miglioramento delle situazioni igienico – sanitarie del popolo ed allo sviluppo di una giustizia sociale. Egli, quindi, si avvicinò ad idee socialiste massimaliste, in sintesi comuniste, tanto da essere sospettato di attività antigovernative. La sua professione di medico condotto in val Pesarina lo portò a conoscere il dottor Umberto Cecchetti di Tolmezzo di cui sposò, il 24 aprile 1933, la terza figlia, Margherita Regina. Dopo il 25 luglio 1943 ed in particolare dopo l’8 settembre dello stesso anno, si dette da fare, con altri, per organizzare un gruppo di “ribelli” e resistenti al nazifascismo in val di Gorto, gruppo che si strutturò nel corso delle riunioni dell’ottobre 1943 a la Patussera e dell’11 novembre 1943 presso l’albergo ‘Martinis’ di Ovaro. Nella primavera 1944 il gruppo, affiliatosi alla Garibaldi/Friuli, diventò operativo anche a livello militare. Morì durante un’azione di guerra contro i tedeschi al ponte di Priola di Sutrio il 15 luglio 1944. (Anna Di Qual, Aulo Magrini, la vita di un partigiano, in: Qualestoria n.2, dicembre 2007, pp.35 – 74, a cui si rimanda per approfondimenti).
  20. Mansueto Nassivera, nato a Forni di Sotto il 16 giugno 1915, alpino dell’8°, reduce di Russia, nome di battaglia Leone, cugino di Nembo, Augusto Nassivera. Cadde in combattimento durante l’attacco ad una colonna di 12 macchine tedesche alla galleria di Noiaris, vicino ad Arta Terme, il 24 giugno 1944. Rimasto da solo a proteggere il suo reparto, al quale aveva ordinato di sganciarsi dopo l’attacco (o ritornato indietro per vedere cosa fosse accaduto al portamunizioni del mitragliere), fu circondato dai cosacchi e presumibilmente si uccise con l’ultimo colpo della sua pistola per non cadere in mano nemica. (472 schede di partigiani garibaldini, uomini e donne che scrissero la storia della democrazia, operativi in Carnia o carnici, in www.nonsolocarnia.info).
  21. Ervino Della Pietra, 16 giugno 1924, nome di battaglia Fuoco, deceduto il 28 settembre 1944 per ferite riportate in combattimento. (472 schede di partigiani garibaldini, uomini e donne, op. cit.).
  22. Probabilmente trattasi di Carlo Negro, nato a Comeglians il 20 febbraio 1926, nome di battaglia Grillo, caduto a Casanova di Tolmezzo, in combattimento, il 28 settembre 1944.
  23. Carlo Bettera, nato a Tolmezzo il 22 marzo 1923, nome di battaglia Boris, caduto ad Ampezzo il 21 settembre 1944, per le ferite riportate in combattimento. (472 schede di partigiani garibaldini, uomini e donne, op. cit.).
  24. Gino Pieri, Storie di partigiani, Aviani & Aviani, 2014, pp. 168- 174.
  25. Gino Pieri, primario chirurgo all’ospedale di Udine, deputato socialista alla Costituente (1946-1948), autore di «Storie di partigiani», edito la prima volta nel settembre 1945. Gino Pieri giunse all’ ospedale di Udine nel 1937 e, dal nosocomio della città, seguì le vicende della guerra partigiana, aiutando il movimento in vario modo, soprattutto con l’invio di medicinali, rischiando di persona. Nel marzo 1945 venne incarcerato in via Spalato per la sua attività a favore dei partigiani, ed il 28 aprile, quando i tedeschi stavano per lasciare Udine, fu invitato dal comandante, maggiore von Hallensleben, a trattare, con il Cln provinciale, un accordo «in chiave antislava e anticomunista». Riuscì a inoltrare la proposta al Comitato, che la respinse. Dopo la guerra Gino Pieri fu nominato commissario straordinario dell’ospedale di Udine, quindi nel 1946 fu eletto alla Costituente assieme a Giovanni Cosattini ed a Giuseppe Ernesto Piemonte. L’anno dopo ci fu la scissione di palazzo Barberini ma Pieri rimase col vecchio Partito Socialista. Il 31 gennaio 1948 concluse i lavori alla Costituente. Nel 1948, alle prime elezioni politiche generali, non fu rieletto. Si trasferì quindi a Roma dove visse gli ultimi anni. Morì il 21 giugno 1952. (Mario Blasoni, Gino Pieri, chirurgo e partigiano, in: Messaggero Veneto, 29 luglio 2014).
  26. Gino Beltrame, garibaldino, nome di battaglia Emilio, farmacista udinese, nato nel 1902, esponente del Partito Comunista, membro del C.L.N. provinciale per il P.C.I. e rappresentante di detto partito nel governo della Zona Libera di Carnia. Dopo la Liberazione, fu consultore nazionale alla Costituente per il P.C.I., e svolse l’attività di farmacista ad Udine, nella cui circoscrizione elettorale fu eletto più volte deputato sempre nelle file del Partito Comunista, ricoprendo tale carica dal 1948 al 1963. Morì nel 1973. (Scheda biografica di Laura Matelda Puppini, in: Romano Marchetti, op. cit., p. 380).
  27. Flavio Fabbroni, Donne e ragazze nella Resistenza in Friuli, quaderni della Resistenza, 15, 2012, p. 54.
  28. Andreina Nazzi di Tolmezzo, nome di battaglia Nina, garibaldina. Partigiana del btg. Cossutti comandato da Zan Zan, nel settembre 1944 fu l’autrice dell’attentato al fortino tedesco di via Paluzza, che fece molte vittime fra i nemici. (Pier Giuseppe Avanzato, Gente di Tumieç, racconti immagini poesie, 2004, Ed. Andrea Moro, 2004. p. 147). Comunista, sposò il mutilato in Spagna Guglielmo Intilia della stessa fede politica, da cui ebbe due figli. Morì a Tolmezzo nel settembre 1987.
  29. Pier Giuseppe Avanzato, Gente di Tumieç, op. cit., p. 147.
  30. “Relazione storica delle operazioni militari Divisione d’Assalto “Carnia Nassivera”, c/o Archivio ANPI – Udine, in: Flavio Fabbroni, Donne e ragazze nella Resistenza in Friuli, op. cit., p. 41
  31. Pier Giuseppe Avanzato, Gente di Tumieç, cit., p. 147.
  32. Relazione storica, op. cit., p. 41.
  33. Pier Giuseppe Avanzato, Gente di Tumieç, cit., p. 147.
  34. Sara Menchini, di Tolmezzo, osovana, nome di battaglia Rododendro.
  35. Sara si riferisce al caffè Manin, che era locato davanti alla porta di sopra, poi demolita, ove ora si trova il panificio pasticceria che ne ha mantenuto il nome.
  36. Si seppe solo poi che si trattava di Renato Del Din.
  37. Potrebbe trattarsi del maresciallo Argentieri i cui figli, Mario e Massimo, diventarono partigiani. Invece chi comandava la caserma dei carabinieri di Tolmezzo era il capitano Santo Arbitrio. (Per Santo Arbitrio cfr. http://www.nonsolocarnia.info/la-storia-di-santo-arbitrio-catanzarese-capitano-della-caserma-dei-carabinieri-a-tolmezzo-ai-tempi-del-funerale-del-din-che-non-ostacolo-perche-resti-memoria/).
  38. Testimonianza dattiloscritta di Romano Marchetti, datata 15 agosto 1976. – In fotocopia in: Archivio Laura Matelda Puppini. Provenienza: Romano Marchetti.
  39. Documento della R. Prefettura di Udine datato 3 maggio 1944, indirizzato al Ministero Interni – Sicurezza Val Degano, con oggetto “Attività ribelli in provincia”, e di fatto relativo al funerale di Renato Del Din, non ancora identificato, giunto a destinazione l’11 maggio 1944. Archivio di Stato Roma. Per gentile concessione di Marco Puppini.
  40. Testimonianza dattiloscritta da e di Romano Marchetti, datata 15 agosto 1976, cit.
  41. Anna De Prato, moglie di Vittorio Pezzetta, garibaldina, nome di battaglia Marì, nata il 18 novembre 1916, morta nel 2013.
  42. Laura Matelda Puppini, intervista ad Anna De Prato, dicembre 2011. Mediatore Rolando Marini.
  43. Lucia Cella di Imponzo di Tolmezzo, nome di battaglia Mira, garibaldina, nata il 29 febbraio 1920, morta a Cividale nel 1996. La testimonianza di Mira è tratta da: “Mira” sui monti la libertà, a cura di Ferruccio Tassin, ed. Circolo Ricreativo Sportivo Filodrammatica, di Versa, 2014. A mio avviso, come accaduto per Anna De Prato, Lucia, non più giovane e provata dalla morte del figlio Giuseppe, ricorda emotivamente i fatti che la impressionarono maggiormente, appuntandoli, e non riportandoli, talvolta, in ordine cronologico preciso, ma come flash presenti nella sua mente. Inoltre spesso fatti connotati da emotività negativa, come per esempio la morte o la cattura di compagni ed amici, potevano creare profondo dolore anche solo ricordandoli ad anni di distanza, e quindi venir rimossi. Uno degli aspetti più interessanti e che non si trovano in altre fonti, è il tentativo di avvelenamento di partigiani in convalescenza a Grado, in periodo post- bellico, non si sa se intenzionale o meno.
  44. “Mira” sui monti la libertà, op, cit., p. 33.
  45. Giulio de Monte, nato ad Ampezzo nel 1916, nome di battaglia Zanzan ma anche Zan zan. Prima aiutante di battaglia del famigerato tenente Franzolini, quindi, il 23 marzo 1944, passato alla resistenza. Reduce di Russia. (Erminio Polo, Forni di Sotto un paese segnato dal fuoco, editrice Grillo e Centro Cultura, 1984 p. 151). Comandante del battaglione Cossutti prima, di quello Pellizzari Grifo a fine guerra, venne insignito della medaglia d’argento al valor militare. (472 schede di partigiani garibaldini, uomini e donne, op. cit.).
  46. Mario Candotti, nome di battaglia Barba Toni o Barbatoni, nato ad Ampezzo (Udine) il 16 ottobre 1915, garibaldino. Chiamato alle armi nel 1939, prese parte, come ufficiale di artiglieria della Divisione Alpina Julia, alle operazioni di guerra sul fronte greco – albanese e su quello russo, da cui riuscì ad uscire vivo, portando a casa pure molti dei suoi soldati. L’8 settembre 1943 si trovava a Nimis, in transito verso Montespino di Gorizia, ove avrebbe dovuto essere impiegato contro i partigiani di Tito, ed apprese dalla gente dell’avvenuto armistizio. Nei giorni successivi continuò la ridda di notizie finché, già raggiunto dall’ordine di sgombero, decise di portarsi in bicicletta ad Ampezzo. Ed ad Ampezzo incontrò, il 15 aprile 1944, i partigiani garibaldini comandati da Tredici. Nel giugno 1944 entrò a far parte del btg. Carnico della Divisione Garibaldi – Friuli, che comandò dopo il 23 luglio dello stesso anno. Successivamente, dal novembre sempre del 1944, rivestì la carica di comandante della Divisione Garibaldi Carnia Nassivera, di cui fu Capo di Stato Maggiore il suo amico Ciro Nigris, Marco. Non apertamente comunista, come precisa nel suo diario, nel dopoguerra insegnò, in un primo tempo, come maestro elementare a Paluzza, diventando, poi, direttore didattico ed infine ispettore scolastico a Spilimbergo. Morì a Pordenone l’11 maggio 1985, a causa di un incidente stradale. È autore di diversi articoli sul periodo della resistenza. Il suo diario fu pubblicato, postumo, in un primo tempo, nell’ottobre – novembre 1985, a puntate sul quotidiano “Il Piccolo”, edizione del Friuli Venezia Giulia, in un secondo tempo nel volume: Mario Candotti, Ricordi di un uomo in divisa, naia, guerra, resistenza, I.F.S.M.L., 1986. (Scheda biografica di Laura Matelda Puppini, in: Romano Marchetti, op, cit., pp. 382-383).
  47. “Mira” sui monti la libertà, op, cit., 33, pp. 35-44.
  48. “Mira” sui monti la libertà, op, cit., 33, pp. 36-37.
  49. Armando Zagolin era nato ad Udine il 29 settembre 1894. Laureatosi in medicina a Padova, fratello del primario medico di Gemona del Friuli Manlio Zagolin, medico condotto di Ampezzo, comunista, fu una «grande figura di antifascista, dotato di grande altruismo e coraggio». (Osvaldo Fabian, Affinché resti memoria. Autobiografia di un proletario carnico 1899 – 1975, Kappa Vu ed., 1999. 258). Dopo l’8 settembre 1943 fu fra i primi organizzatori delle squadre armate che formarono il nucleo delle formazioni partigiane del 1944. Per questo motivo venne arrestato, il 1° aprile 1944, ad Ampezzo dai carabinieri della locale stazione ma venne liberato il giorno successivo da un gruppo di garibaldini comandati da Falco, Vincenzo Deotto. (Mario Candotti, Ricordi di un uomo in divisa, naia, guerra, resistenza, ed.IFSML. ed A.N.A. Pn, 1986, p.151). Nel 1944 – 1945 continuò la lotta per la libertà come partigiano prodigandosi come medico, in particolare nell’ospedale allestito, sotto la sua guida, ad Ampezzo ma pure in quelli di Muina, Arta, Mione, nella cura dei feriti assieme alla dottoressa Xenia ed alla capoinfermiera Elsa Fazzutti, Vera di Forni di Sotto. Secondo Mario Candotti a Natale del 1944 si trovava rifugiato presso l’abitazione di Toni dal Cont, ad Ampezzo, ed il 14 gennaio 1945 era ancora in Carnia. Egli ricorda, pure, come fosse considerato piuttosto imprudente. (Mario Candotti, Diario storico, pubblicazione a puntate sul quotidiano “Il Piccolo”, edizione del FVG., 22/11/1985). Nel dopoguerra fu ingiustamente coinvolto nell’inchiesta per l’eccidio di Topli Uork, comunemente definito di Porzûs. Fu arrestato il 10 luglio 1946 e tradotto in carcere a Padova insieme ad altri imputati. In questo frangente egli si comportò con dignità e coraggio, costringendo i reticenti ad uscire allo scoperto, e ciò gli consentì di essere liberato. Secondo Romano Marchetti, che lo incontrò in treno, fu accusato persino di aver fatto incarcerare sua figlia, in un clima di “caccia al comunista”. Nonostante la sua età ed i continui trasferimenti da un capo all’altro del Friuli, trovò il tempo e la buona volontà di curare ammalati e feriti civili nelle zone presidiate dai partigiani. Morì il 28 agosto 1947, per i disagi e le sofferenze patite, di Tbc all’ospedale di Udine. (Lino Argenton, I medici durante la resistenza nella regione Friuli (1943- 1945): Armando Zagolin (1894– 1947), in: Storia Contemporanea in Friuli, ed. I.F.S.M.L., n. 21, 1990, p. 99; FABIAN Osvaldo, op. cit., p.258; COLONELLO Giovanni Angelo, op. cit. p. 89; e Romano Marchetti). Il nome di Zagolin resta legato pure alla cosiddetta: ‘grotta Zagolin’, «una base straordinaria, una vera opera d’arte costruita a quasi 1700 metri di quota, lungo un costone del monte Nauleni, in zona Sauris. Una stretta dolina naturale era stata coperta da tronchi di abete, terra, sassi, arbusti e, attraverso una botola, si poteva accedere alla porta del rifugio che era dotato di letti a castello, tavolo, mensole, sedie e cucinino. La base era stata costruita da partigiani ed aviatori inglesi e neozelandesi sotto la guida del dott. Cesare Zagolin». (Mario Candotti, La lotta partigiana in Carnia, op. cit., p. 48). (Scheda biografica di Laura Matelda Puppini, in: Romano Marchetti, op, cit., pp. 412-413).
  50. ““Mira” sui monti la libertà, op, cit., 40-44, in particolare, per Casanova, p. 44.
  51. ““Mira” sui monti la libertà, op, cit., 44-45.
  52. ““Mira” sui monti la libertà, op, cit., 45-52. Citazione da p.52.
  53. Mira” sui monti la libertà, op, cit., pp. 53-69.
  54. Frasi citate in: Eleonora Buzziolo, Partigiane in Friuli, op. cit., p. 59.
  55. Ivi, p. 65.
  56. Ivi, p. 67.
  57. Ivi, p. 72.
  58. Ivi, p. 82.
  59. Mazzotta ed., prima ed. 1981, seconda ed. 2003, Mirella Aloisio e Giuliana Beltrami nel loro” Volontarie della Libertà”, Mazzotta ed., prima ed. 1981, seconda ed. 2003.
  60. Ivi, p. 26.

L’immagine che presenta l’articolo è una di quelle gia inserite e rappresenta un gruppo di partigiane e partigiani garibaldini in Carnia. LMP.

 

 

 

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