Era il 15 settembre 1935, quando il Reichstag Nazista emanò, a Norimberga, tre leggi fondamentali per la storia successiva: quella per la protezione del sangue e dell’onore tedesco, che proibiva i matrimoni e i rapporti extraconiugali tra ebrei e non ebrei; quella sulla cittadinanza del Reich, che permetteva solo a chi aveva ‘sangue tedesco’ o ‘ simile’ di essere ‘cittadino del Reich’, e che dette origine allo sterminio degli ebrei nel Terzo Reich ed in Italia, soprattutto grazie al decreto attuativo, datato due mesi dopo; quella sulla bandiera del Reich, la cui esposizione venne vietata  ai ‘giudei’.

Ma esse non furono che il coronamento dell’antisemitismo ‘di Stato’ che aveva già visto Il 1° aprile 1933 medici, negozianti ed avvocati di origine ebraica subire il primo boicottaggio, a cui seguì la legge che vietava agli ebrei di ricoprire impieghi statali, relegandoli ai lavori più umili. Infine, dopo la promulgazione delle leggi razziali, i cui effetti furono ampliati con ulteriori norme e decreti, iniziò la persecuzione e sterminio degli ebrei, che fece dai 5 ai 6 milioni di vittime, uomini, donne, bambini, vecchi e giovani, perseguitati, uccisi, dileggiati, sfruttati, e privati di ogni loro bene materiale.
Ed un segno forte venne dato ‘la notte dei cristalli’, fra il 9 ed il 10 novembre 1938, sotto la cui dicitura, però si indicano le azioni antisemite iniziate il 7 e terminate il 13 di quel mese, nel corso delle quali furono distrutti od incendiati sinagoghe, cimiteri, luoghi di aggregazione della comunità ebraica, e migliaia di negozi e case private. Il numero delle vittime decedute per assassinio o in conseguenza di maltrattamenti, per atti terroristici o per disperazione, venne stimato  tra 1300 e 1500. (1).

Ma non furono solo motivi di ‘sangue’ a spingere i nazisti al genocidio ebraico. Infatti gli ebrei detenevano le leve dell’economia in Germania, ed i figli dei primi commercianti, o la terza e quarta generazione, avevano spesso riempito le università, e laureatisi, avevano formato una classe di intellettuali ed artisti di altissimo livello, che il Terzo Reich non riusciva a sopportare, perché ben altri dovevano formare la classe dominante, con il ferro, il fuoco e la schiavizzazione.
Usciti dai ghetti, gli ebrei, tra fine Ottocento e primi Novecento, cercavano l’assimilazione con la popolazione autoctona, ed il loro sogno era quello di “diventare indistinguibili” all’interno della società, di non essere dei diversi ma dei cittadini a pieno titolo nella Nazione in cui vivevano. Ma questa problematica doveva venir spazzata via, brutalmente, dal Nazionalsocialismo che costrinse gli Ebrei europei a trasformarsi in vittime dell’Olocausto od in profughi. (2).  

In questo contesto si colloca l’esperienza tragica di Jean Amery (vero nome Hans Chaim Mayer, poi da lui modificato come segno della sua dissociazione dalla cultura germanica), ebreo, torturato, internato ad Auschwitz, vittima del nazismo, ed intellettuale, che propongo come spunto di riflessione per la giornata della memoria.

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La sua esperienza di vita potrebbe iniziare così: «Nel Voralberg, in Austria, viveva un tale, proprietario di un ristorante e di una macelleria, del quale mi raccontavano che parlava correttamente l’ebraico. Era il mio bisnonno. Non l’ho mai conosciuto e deve essere morto quasi cent’anni fa.». (3).

Ma Jean Amery nega di appartenere personalmente a livello identitario al popolo ebraico, dicendo che prima delle leggi razziali, che lo fecero scoprire ‘ebreo’, il suo interesse per l’ebraismo era assai limitato, perché l’ambiente in cui era cresciuto non era ebraico, sia dal punto di vista culturale che del folclore. E precisa: «L’antisemitismo mi ha generato come ebreo». (4).
Infatti egli, che da bambino e giovane aveva abitato a Vienna con la madre, e si sentiva austriaco a tutti gli effetti, non aveva conosciuto il padre perché era morto «ove il suo imperatore gli aveva comandato di andare», e la sua immagine, ritratta in una fotografia, lo mostrava come un cacciatore delle Alpi tirolese, con l’uniforme della prima guerra mondiale. Inoltre la madre non aveva mai rinunciato all’albero di Natale adornato con noci dorate, e se doveva supplicare qualcuno, si appellava a Gesù, Giuseppe e Maria (5), essendo cattolica.

Ma improvvisamente, a 19 anni, Jean era diventato un ebreo, per «legge e decisione della società», e l’urlo: ‘Juda, verreche!’ iniziò a riguardare, di colpo, anche lui.
«Da quel momento in poi – scrive Amery- essere ebreo per me significò essere un morto in licenza, un morituro, che solo per caso ancora non era dove secondo la legge avrebbe dovuto essere […]». Ed aggiunge che però non furono solo i nazisti radicali a sostenere le politiche antisemite (6), ma «Esisteva una Germania che conduceva alla morte ebrei ed avversari politici, ritenendo di potersi realizzare solo in questo modo». (7).

Poi la fuga da Vienna all’inizio del mese di gennaio del 1939, nella notte, con altri compagni di sventura e la giovane moglie, verso il Belgio, seguendo i sentieri dei contrabbandieri, senza passaporto e visti, con il terrore di esser fermati da doganieri e gendarmi. «Affondavamo nella neve sino al ginocchio – scrive Amery – gli abeti scuri non erano diversi dai loro fratelli in patria, eppure erano già abeti belgi, e noi sapevamo che non ci volevano. Un vecchio ebreo, che perdeva ogni momento le calosce, si aggrappò alla cintura del mio cappotto e gemendo mi promise tutte le ricchezze del mondo se solo gli avessi permesso di sostenersi a me». Quindi un camion li aveva raccolti e portati ad Anversa. «Da allora – aggiunge – ho passato clandestinamente tanti di quei confini che ancora adesso è fonte di stupore e meraviglia passare una dogana in macchina, ben equipaggiato con tutti i documenti necessari: ogni volta il cuore mi batte più forte, rispondendo ad un riflesso pavloviano». (8). 

Ed iniziò, per Amery, l’esilio. La vecchia vita era abbandonata per sempre, ed egli e la moglie dovettero incominciare a vivere con quindici marchi e cinquanta pfenning. Jean, ben presto, capì che, nella vita quotidiana, l’esilio mostrava il volto della ‘desolazione’, in particolare per chi aveva dovuto, come lui, lasciare la patria costrettovi. Egli ed i suoi compagni di viaggio avevano perso tutto: gli affari, le proprietà, la casa, il patrimonio, i prati e le colline della propria terra, il profilo della città e delle chiese …e non solo.
 «Perdemmo gli esseri umani: il compagno di banco, il vicino l’insegnante. Si erano trasformati in delatori o picchiatori, nel migliore dei casi si conformavano ad un imbarazzato attendismo». Ed anche ‘la popolazione’ «ebbe molta paura di nascondermi». (9).

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Poi l’adesione di Jean Amery alla resistenza antinazista belga, l’arresto nel luglio del 1943, la tortura nel forte Breendonk, , l’internamento ad Aushwitz. Non sarebbe andato partigiano Jean o Hans che dir si voglia, se non lo avesse costretto il nazismo, e ciò vale anche per gli altri appartenenti alla resistenza europea. Tutti avrebbero preferito curare le proprie attività, stare a casa vicino al fuoco con la moglie ed i bambini, o con genitori, fratelli e sorelle, ma furono costretti a scegliere un’altra via, ed ad opporsi a chi cercava di occupare l’Europa intera con le armi, e facendo lavorare per sé o uccidendo, sterminando.

«La tortura è l’esperienza più atroce che un essere umano possa conservare in sè»- scrive Amery, e supera qualsiasi immaginazione, anche perché è realtà pervasa da una sensazione di abbandono totale, ove, dalla prima percossa, si perde la fiducia nel mondo. Non c’è soccorso o misericordia, sotto tortura.  «La tortura non fu un accidente – sostiene Amery- ma l’essenza del Terzo Reich» (10).  «I nazisti torturavano al pari di altri […]. (…). Ma torturavano soprattutto perché erano aguzzini». E «chi è stato torturato resta tale». Bastava una pressione della mano su uno strumento di tortura, per trasformare una persona in un «maialetto che urla terrorizzato, mentre viene portato al macello». Vi è sadismo in chi tortura- scrive Amery-  vi è una immagine del mondo come un inferno in cui il torturatore domina incontrastato. (11).

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Infine Auschwitz ed altri campi di concentramento e sterminio, ove egli dice che l’internato viveva «nella stessa stanza con la morte». Mancava tutto nel Lager, ed «all’entrata si veniva privati di tutto, e successivamente dileggiati dai depredatori perché non si possedeva niente», e «davanti al prigioniero s’innalzava mostruosa e insuperabile la rappresentazione dello stato delle SS», cosicchè l’inimmaginabile diventava realtà ancora una volta (12).  A Birkenau si diffondeva l’odore dei cadaveri bruciati, la morte era onnipresente, le selezioni per le camere a gas avvenivano ad intervalli regolari e «per un nonnulla i prigionieri venivano impiccati nella piazza dell’appello, ed i loro compagni dovevano […] sfilare davanti al corpo penzolante, accompagnati da un’allegra marcetta. Si moriva in massa sul lavoro, nell’infermeria, nel bunker, nelle baracche». (13). Poi la liberazione, il 15 aprile 1945, a Bergen-Belsen da parte degli inglesi.  «Dal Lager uscimmo denudati, derubati, svuotati, disorientati e ci volle molto tempo prima che riapprendessimo il linguaggio quotidiano della libertà». (14).

Alla liberazione, «noi risorti avevamo tutti, più o meno, l’aspetto che mostrano le fotografie […] scattate in quei giorni di aprile e maggio del 1945: scheletri rimessi in forze con scatolette di corned beef angloamericane, fantasmi rapati, sdentati, a malapena utilizzabili per rendere in fretta testimonianza […]». (15).
E «Quanto è avvenuto è avvenuto. Ma il fatto che sia avvenuto non è facile da accettare. (…). Le ferite non si sono rimarginate». (16).
Eppure, scrive sempre Jean Amery, quando egli decise di uscire dal silenzio, in concomitanza con il processo ad Auschwitz apertosi a Francoforte nel 1964, e di scrivere la sua esperienza di torturato ed internato, si sentì dire da un amico di stare attento, di essere prudente, e di indugiare il meno possibile, se avesse voluto scrivere su “Un intellettuale a Auschwitz”, su Auschwitz, sottolineando particolarmente gli aspetti spirituali, non le condizioni di vita. Ma invece, anche a suo parere, testi e memorie su Auschwitz e sugli altri Lager, dovrebbero essere utilizzati come testi scolastici obbligatori per le scuole secondarie. (17).

Secondo Amery, nel dopoguerra si iniziò un nuovo corso nella Germania Occidentale, ove gli uomini politici, che ben poco avevano avversato il nazismo, cercarono di ricongiungersi all’Europa saldando, in nome dell’ordine, la Germania hitleriana a quella successiva, ed egli, che si considerava vittima del nazismo, diviso dai carnefici da mucchi di cadaveri, affermava di non sentirsi a suo agio nella nuova Germania, «in questo paese pacifico, bello, popolato da persone capaci e moderne», dove si sposava la teoria del dimenticare, della pacificazione, della conciliazione, e si sottolineava come ormai i tedeschi non ce l’avessero più con gli ebrei, e come questo aspetto fosse visto come una conquista. (18).
Criminali nazisti furono assolti o condannati a penne irrisorie, e, termina Amery, «Nessuno meglio di chi all’epoca dovette assistere al tramonto della libertà in Germania sa quanto sia necessario vigilare». (19).

Nel momento storico attuale, vi è un revival pauroso di movimenti che inneggiano a Hitler e Mussolini, che sposò l’antisemitismo nazista e la caccia agli ebrei, spesso composti da giovani che ben poco sanno. È tempo che in questa nostra Europa si riprenda a studiare seriamente la storia, sottolineando i pericoli di certe derive. Per questo ho riportato, in occasione della giornata della memoria, queste esperienze e considerazioni di Jean Amery, pseudonimo di Hans Chaim Mayer, che fino alla morte portò il numero datogli come internato ad Auschwitz. Per non dimenticare.

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Vorrei anche invitare gli insegnanti delle superiori a prendere in seria considerazione, come letture proponibili, non solo ‘Intellettuale ad Auschwitz’ di Jean Amery o il testo del carnico Pietro Pascoli, “41927, I deportati”, leggibile on line, in: http://www.deportati.it/static/pdf/libri/pascoli_deportati.pdf, ma anche i romanzi e racconti di Heinrich Böll, premio Nobel per la letteratura nel 1972, che ci ha descritto magistralmente le falsità della guerra e la Germania del dopoguerra, e non solo. Infine ricordo i bellissimi: “Il nazista & il barbiere”, di Edgar Hilsenrath, Marcos y Marcos, ed., 2010, e “L’Adamo risorto”, di Yoram Kaniuk, Giuntina ed., oltre che lo stupendo testo di Francesco Guccini ‘Auschwitz’, questo per tutti, che permettono ulteriori riflessioni.

Laura Matelda Puppini 

(1) Notizie da: https://it.wikipedia.org/wiki/Leggi_di_Norimberga; https://it.wikipedia.org/wiki/Notte_dei_cristalli; https://it.wikipedia.org/wiki/Olocausto.

(2) Sull’argomento cfr: Hannah Arendt, “Il futuro alle spalle”, il Mulino ed.. Riferimenti al problema si trovano anche nella ricerca inedita di Annalisa Candido, “Il mio popolo, se ne ho uno”, relazione al termine del tirocinio presso il Centro Ebraico Italiano ‘ Il Pitigliani’ – Università Roma Tre, Roma, 23 maggio 2006.

(3) Jean Amery, Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, terza edizione italiana, 1987, p. 146.

(4) Ivi, pp. 146-147.

(5) Ivi, pp. 128-129.

(6) Ivi, p. 132.

(7) Ivi, p. 41

(8) Ivi, p. 78.

(9) Ivi, p. 79.

(10) Ivi, pp. 57-61.

(11) Ivi, p. 67 e p. 71.

(12) Ivi, p. 40, p. 42, p. 44, p. 47.

(13) Ivi, p. 42 e p. 47.

(14) Ivi, p. 43 e p. 52.

(15) Ivi, pp. 105-106.

(16) Ivi, p. 21.

(17) Ivi, p. 29.

(18) Ivi, p. 106 e pp. 106-109.

(19) Ivi, p. 19.

L’immagine che correda questo testo è tratta, solo per questo uso, da: http://www.modenatoday.it/eventi/eventi-giorno-della-memoria-serramazzoni-2016.htm.

Laura Matelda Puppini

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