Dopo aver letto il testo di don Mario Gariup: S. Leopoldo (Villa Ecclesiae Leopoldskirchen, Dipalja Ves) Società Cooperativa Editrice Dom, 1992, come promesso, desidero fare alcune precisazioni e correggere alcune ipotesi errate poste nel precedente mio articolo, scritto sulla base di quanto ascoltato e ricercato ma senza avere a disposizione la dovizia di informazioni che ha posto il sacerdote, originario di Topolò di Grimacco, nelle Valli del Natisone e parroco di Ugovizza nel suo volume.

Egli cita come fonti principali per il suo lavoro, il “Liber Memorabilium parochiae Leopoldskirchen inceptus a dei 28 julii 1853, n.1 Cronaca fino al 1914” scritto dal parroco Adam Kandolf nella seconda metà dell’Ottocento; “Orts Chronik Leopoldskirchen im Kanaltale Erster teil, (Volume che raccoglie la Cronaca su Leopoldskirchen in Val Canale, prima parte), di Giuseppe Kowatsch; “Orts Chronik Leopoldskirchen im Kanaltale Kärnten. II Teil, (Volume che raccoglie la Cronaca su Leopoldskirchen in Val Canale, Carinzia, seconda parte), di Martino Kowatsch, figlio di Giuseppe. (Mario Gariup, S. Leopoldo (Villa Ecclesiae Leopoldskirchen, Dipalja Ves) Società Cooperativa Editrice Dom, 1992, note 1-2-3, pp. 9-10) e materiale raccolto da don Stefano Battigelli, parroco di San Leopoldo, che ha pure trascritto i volumi degli Kowatsch, padre e figlio. Molte sono le citazioni da documenti dell’Acau, cioè del Archivio della Curia Arcivescovile di Udine, non si sa se visionati di persona o riportati da altri testi. 

Ma don Mario Gariup si è trovato pure di fronte al problema della irreperibilità di una fonte, tanto che a p. 139 del suo volume così scrive: «La chiesa di S. Leopoldo detta “S. Gertrudis in villa ecclesiae” è menzionata come filiale di Cuniza alias Ugowitz nel sec. XVI nel “Regestum omnium Parochiarum ac Vicariatuum cum Ecclesiis filialibus Archidiaconatui Carinthiaco almae Diocesis Aquileiensis incorporatarum una cum Ecclesiarum Patronis earandemque Presentatoribus”, documento presente in Acau, mss. del sec. XVI. Ma poi aggiunge subito che «Questo registro, tanto citato non esiste più nell’archivio della curia arcivescovile di Udine», riprendendo l’informazione da Gian Carlo Menis, che l’aveva pubblicata in: Gianfranco Ellero e Guido Barbina, Tarvis, Società Filologica Friulana, Udine, Agraf, 1991. (Ivi, p. 139 e nota 105 a p. 139).

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La chiesa di San Leopoldo ( nome ora diffuso per indicare Laglesie/Leopoldskirchen) era, sin dalle origini, dedicata a Santa Gertrude di Nivelles, santa protettrice dai roditori, dalla febbre e dalla follia, fu eretta nel dodicesimo secolo, per ordine del Vescovo Ottone di Bamberga, fu ingrandita sotto Rodolfo d’Asburgo e riconsacrata in un anno compreso fra il 1257 ed il 1268 (Ivi, pp. 59-60), e conservava anche una reliquia della Santa, di cui fu ritrovata la capsula con il sigillo del Vescovo di Concordia Alberto De Colle. (Ivi, p. 60)

Santa Gertrude di Nivelles era figlia di Pipino di Landen, signore nel Brabante e antenato di Carlo Magno, e, alla morte del padre avvenuta nel 639, si fece monaca con la madre Itta e la sorella Begga. La madre fondò un monastero sia maschile che femminile, diventandone la badessa. Alla sua morte le succedette Gertrude, che, nell’accettare il titolo, decise però di affidare ad un frate il compito della gestione del monastero, riservandosi quello di istruire monaci e monache, chiamando pure presso di sé, dall’Irlanda, dotti nelle Scritture e inviando suoi emissari a Roma per acquistare libri liturgici. E ben presto raggiunse, ancora in vita, la fama di santa. Ma il suo vero prodigio fu considerato il raggiungimento della pace tra le famiglie signorili locali, divise da eterni scontri che arrecavano, al popolo, saccheggi, razzie, e anni di miseria. Subito dopo la sua morte, avvenuta nel 659 a soli 33 anni, la popolazione e la chiesa iniziarono a venerarla. Il suo corpo venne deposto in una cappella e, successivamente, in una basilica appositamente costruita. (http://www.santiebeati.it/dettaglio/45800).  Il suo culto ebbe una rapida diffusione, soprattutto nei Paesi Bassi ed in Inghilterra.

Nella chiesa di San Leopoldo più immagini ricordano la Santa titolare, fra cui l’affresco sulla parete di destra del presbiterio, che è collocato sopra la rappresentazione di San Nicola e le tre fanciulle.  (Mario Gariup, op. cit., p. 140).

Decio Deotto, Antonio Morocutti, Santa Gertrude si dona a Dio.

L’origine della chiesa è legata ad una leggenda, che così viene narrata da don Gariup.

«Circa ad un quarto d’ora da San Leopoldo verso Pontafel, c’ è una località che si chiama Rio degli uccelli. Nelle caverne e nascondigli di questo Rio dimoravano dei ladroni che derubavano chiunque passasse da quelle parti e seminavano il terrore e la morte. (…). Avvenne che un pellegrino che si recava a Roma, fu derubato di tutto da quei ladroni. Prima di lasciarlo andare i ladroni gli domandarono se avesse ancora qualcosa con sé. Rispose di no. Dopo qualche tempo ritornò da loro a consegnare dei ducati che aveva cucito nel mantello e di cui non si era ricordato. I ladroni si meravigliarono della sua coscienza scrupolosa e delicata e del suo buon cuore, si pentirono della loro malvagità e gli restituirono tutto ciò che gli avevano rubato. Lo pregarono che di ritorno da Roma portasse loro la benedizione del Papa e le indulgenze.
Tornando da Roma il pellegrino portò un quadro di Santa Gertrude con la condizione che nei paraggi costruissero una chiesa. I briganti pentiti divennero bravi contadini e presto costruirono la chiesa e il paese che ora si chiama San Leopoldo». (Ivi, pp. 23-24).

Questo ci potrebbe far comprendere che il culto della Santa venne portato da fuori, e che il pellegrino era un sant’uomo. Secondo don Adamo Kandolph, parroco della chiesa dal 1848 al 1882, era S. Giovanni di Kent (Ivi, nota 48 a p. 24). Ma anche don Gariup ricorda come la fondazione della chiesa sia legata al vescovo di Bamberga Ottone. (Ivi, pp. 59-60).

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San Leopoldo d’Austria è, anche per don Gariup, il patrono della chiesa, (Ivi, p. 140), e San Floreano, protettore dagli incendi, era ed è molto venerato a Laglesie/Leopoldskirchen, tanto che il 4 maggio, giorno a lui dedicato, viene svolta una solenne processione in suo onore. (Ivi, p. 160).

La rappresentazione di Gesù con il Sacro Cuore, nella volta absidale, mi aveva fatto pensare a Santa Gertrude di Helfta, erroneamente.
Il culto al Sacro Cuore di Gesù venne invece introdotto nel paese della Val Canale dal parroco don Adamo Kandolph (Ivi, p. 198), ed una statua del Sacro Cuore, per la chiesa, venne acquistata nel 1927. (Ivi, p. 165). Don Gariup segnala poi la “Devozione al Sacro Cuore di Maria”, risalente alla fine del 1800 (Ivi, p. 151), ed al “Sacro volto” iniziata a metà del 1800. (Ivi, p. 146).  

Ma nella chiesa, più volte danneggiata, accanto alla Santa titolare si sono voluti ricordare anche altri santi, come San Nicola a cui era dedicato un altare (Ivi, p. 139), o il frate cappuccino San Leopoldo da Castelnuovo, al secolo Bogdan Ivan Mandiç, morto nel 1942 e santificato nel 1982, raffigurato in un quadro posto in fondo all’abisde. Pertanto credo si possa dire che la sensibilità religiosa degli abitanti di La Glesie/Leopoldskirchen ha portato a devozioni coesistenti, come spesso accade, se trattasi di edificio di culto non recente. Inoltre sul ponte era stata posta una statua di San Giovanni Nepomuceno, protettore dagli annegamenti, vissuto nel 1300. (Ivi, p. 230).

Sul volume di don Gariup si trovano anche tracce, a Laglesie/Leopolskirchen, in periodo austriaco, del culto di Santa Elisabetta, essendo Sissi imperatrice. Infatti nel paesino, come credo in altri, venivano festeggiati solennemente sia il compleanno che l’onomastico dell’imperatore e dell’imperatrice d’ Austria, essendo il territorio da Pontafel sotto l’impero. In particolare il 18 novembre si iniziava a ricordare Santa Elisabetta, con fuochi sui monti e spari di mortaretti. Quindi il 19, giorno seguente, dedicato alla santa ed onomastico di Sissi, il parroco celebrava la messa tenendo un particolare sermone spesso commovente e vibrante, e quindi, alla fine della celebrazione, venivano suonate le campane e si sparavano ancora mortaretti. (Ivi, p. 68).

Il culto di Santa Elisabetta era tale che Aloisia, nata nel 1902 e sposa di Martin Kowatsch, inserita fra i “Leopoldesi degni di ricordo” da don Gariup, fece proprio il motto della Santa detta di Turingia ma pure d’Ungheria, figlia di Gertrude da Merano: “Rendere felici il più possibile gli altri» e visitava i malati e gli anziani ed a tutti portava un piccolo dono, cosa però che anche altri facevano, per esempio mio nonno Emidio Plozzer, di Sauris, forse influenzato dalla madre che si chiamava Maria Elisabetta. (Ivi, p. 253-254)

Quadretto di Santa Gertrude, con gatto e pastorale, nell’abside della chiesa.

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Inoltre vale la pena per un attimo di soffermarsi su altre due leggende narrate da don Gariup nel suo libro. (Ivi, p. 28). La prima è relativa alla presenza di “donne bianche” sotto il Koran, in località Pod ravnem ganku (“sotto il livello del passaggio”, se ho ben tradotto) che ballavano se stava per avvicinarsi qualche disgrazia e urlavano di gioia, preannunciando la morte, ma anche avvisavano le donne quando era ora di seminare e raccogliere, ed in questa caratteristiche ricordano le Agane, magari in versione rivista nel tempo. (Cfr. Riflessioni sulle tombe di Lauco, tra “gans”, “aganas”, note metodologiche e“giardini”, in: www.nonsolocarnia.info).

La leggenda, dell’uomo alluvione, che stritola, e dell’uomo selvaggio, peggiore di lui, che lottano fra di loro fino ad annientarsi, (Mario Gariup, op. cit., p. 28), a me non nota, riecheggia il racconto non certo antico ma che potrebbe riprendere spunti non recenti, di Urška, che balla con l’uomo che viene da “dove il Danubio si unisce alla Sava”, che la stringe sempre più, fino all’annientamento, mentre l’uomo selvaggio è personaggio tradizionale delle Alpi, Prealpi e Appennino tosco – emiliano. Le leggende che lo riguardano lo descrivono generalmente come un uomo che vive al di fuori dalla società civilizzata, all’interno del bosco, dove crea la sua casa in una grotta od in un luogo abbandonato. Lasciato il bosco, insegna agli uomini l’arte casearia o, in altre versioni, l’apicoltura o le tecniche minerarie; tuttavia, deriso, snobbato, ingannato o spaventato,  ritorna nella selva, privando l’uomo della possibilità di conoscere altri segreti. Egli, in genere non viene vissuto, quindi, come un personaggio malvagio. (https://it.wikipedia.org/wiki/Uomo_selvatico).

Quadretto che rappresenta, verosimilmente, San Leopoldo Mandiç.

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Secondo me, poi, bisogna precisare alcuni aspetti relativamente alla Signoria Federaun. Infatti se si legge l’interessantissimo: “Roberto Zucchini, Miniere e mineralizzazioni nella provincia di Udine. Aspetti storici e mineralogici, 1998, pubblicazione n. 40, comune di Udine, edizioni del Museo Friulano di Storia Naturale. Catalogo della collezione mineralogica del Museo Friulano di Storia Naturale. Minerali friulani, in: http://www.udinecultura.it/” a p. 74 si trova che «La diminuita importanza commerciale della valle unita al forte depauperamento dei boschi, che avevano alimentato per secoli miniere e fucine, fecero mutare la situazione politica. Così, nel 1759, il vescovo di Bamberga aliena i beni della signoria di Federaun, territorio appartenuto per secoli al Vescovado, che diventarono così proprietà della casa d’Austria.» Questa informazione fa pensare che “Signoria Federaun” e non “Signoria dei Federaun”, come scrive don Gariup, sia solo l’indicazione di un territorio amministrativo che prende nome da un castello e da un casato estinto, a cui si riferisce questa leggenda.

«Teobaldo e Filiberto dei Federaum partirono per sgominare i ladroni che si trovavano nella zona boscosa di Rio degli Ucelli, e ne uccisero molti, ma sul far della sera un altro gruppo di banditi attaccarono Filiberto ed i suoi mentre questi, pensando di averli ormai sgominati, stava passando in rassegna le sue truppe. In suo aiuto accorse Teobaldo, ma, nel colpire con un fendente uno dei ladroni, essendosi questo scansato, colpì suo fratello uccidendolo.
Infine i ladroni si arresero e la loro colpa venne perdonata dai Federaun, che diedero loro della terra da lavorare, trasformandoli in contadini. Ed essi costruirono il paese Laglesie (anche La Glesie) Leopoldskirchen.
Teobaldo non volle sposarsi e partì per le crociate dove morì, senza mai essersi sposato ed aver generato, e il vecchio padre non resistette al dolore e morì anche lui. E non avendo avuto eredi, quando fu calato nella tomba di famiglia, dei padri, dopo aver visto perire i suoi due figli, «lo stemma ed il sigillo furono rotti e l’araldo esclamò “Federaun non più Federaun», indicando la fine del casato. (Mario Gariup, op. cit., pp. 22-23). Dato che Teobaldo si era aggregato alla crociata di Corrado terzo, partita nel 1146, si può ritenere che i Federaun si siano estinti dal 1100 al 1200 dopo Cristo, e che il villaggio di La Glesie sia stato fondato intorno al 1140. (Ivi, pp. 22-23 e https://it.wikipedia.org/wiki/Corrado_III_di_Svevia. Corrado terzo nacque e morì a Bamberga.). Quindi terreni che erano stati dei Federaun ed in particolare la foresta di Tarvisio vennero convenzionalmente collegati in una unità amministrativa indicata con il loro nome. E detto “Patronato Federaun” aveva pure dotato, in epoca imprecisata, la chiesa di Santa Gertrude del beneficio dei pascoli di Granuda e Šinouc. (Mario Gariup, op. cit., p. 141).

Che la dicitura “Signoria Federaun” fosse riferita ad una realtà amministrativa che gestiva la foresta di Tarvisio è ben chiarito in: Ministero dell’interno. Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione. La storia, in: http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/storia, ove si legge: «Le prime notizie storiche sulla Foresta di Tarvisio risalgono all’anno 1006, quando l’Imperatore di Germania, Enrico II il Santo, concedeva la Val Canale, unitamente alle contee di Villach e Walfisberg in Carinzia, al Vescovado di Bamberga nell’odierna Baviera, nello stesso anno costituito a Francoforte con assenso di Papa Giovanni XVIII e dei Vescovi tedeschi. Questo nuovo principato ecclesiastico durerà sette secoli e mezzo, sino al 1759, quando fu acquistato dalla Imperatrice Maria Teresa d’Austria. Il dominio bamberghese era temporale, mentre al patriarcato di Aquileia rimaneva la giurisdizione spirituale. Il vescovo era rappresentato nella Val Canale dal Marksrichter (giudice della città) e dal Waldmeister (amministratore forestale), con sede a Tarvisio, ed a questi era affidata l’amministrazione civile e penale. I boschi della Valle nel loro complesso erano denominati “Signoria Federaun” prendendo il nome dal Castello di Federaun vicino a Villico (Sic! Villacco presumibilmente ndr)».

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Per quanto riguarda Laglesia/Leopolskirchen, esso viene ricordato come uno dei quattro villaggi della Val Canale con popolazione originaria e di madre lingua slovena, (Mario Gariup, op. cit., p. 52) come testimonia anche il fatto che si officiasse, da un certo momento in poi, in sloveno, e dai nomi delle casate, (https://it.wikipedia.org/wiki/Pontebba) ma è anche chiaro che, nel corso dei secoli, vi furono modifiche nella popolazione anche del Friuli, della Carnia, del Canal del Ferro e della Val Canale.

Comunque una antica canzone slovena recita che «Noi leopoldesi siamo carnioli/ dalle alte regioni siamo venuti a Fusine/ a lavorare sotto Malborghetto». (Mario Gariup, op. cit., p. 28).
«Furono gli Sloveni nel VII sec. d.C. a stabilirsi nel comprensorio cominciando a sfruttare il territorio dal punto di vista agro-silvo-pastorale» – si legge sul sito del Comune di Malborghetto, nella parte relativa alla sua storia. (http://www.comune.malborghetto-valbruna.ud.it). Ed «accanto all’insediamento sloveno nel corso del XIII sec. avvenne un graduale immigrazione di popolazione tedesche, anche perché nel 1007 tutta la valle venne donata da Enrico II, Imperatore di Germania, al Vescovado di Bamberga». (Ivi).

Ma sul testo del Ministero dell’Interno, relativamente alla Val Canale, si trova pure che: «Nel XIII secolo si registra una forte immigrazione di popolazioni venete e friulane, che portano le loro tradizioni e la loro lingua. In questo periodo Tarvisio cambia nome, da “Tarfiis in Canal” diventa la Trevisa, “Zabnice” Camporoso, “Bamberghetto” cambia in Bomberghetto e successivamente Malborghetto. Continue sono, però, le immigrazioni di popolazioni di lingua tedesca, tanto che nella prima metà del secolo XV queste sono in maggioranza […]». Quindi dopo un periodo travagliato da invasioni, da guerre, dalle battaglie napoleoniche, «nel 1800 la Foresta passa in proprietà dapprima al Principe Orsini e successivamente a numerosi nobili, sino a quando il governo austriaco, preoccupato dalla pesante deforestazione derivante dai frequenti passaggi di proprietà e dalle pretese e lotte degli aventi diritto di servitù, nonché per la importante posizione militare, decideva di riacquistare il territorio a mezzo del Fondo di Religione della Carinzia e ne affidava la gestione a tecnici forestali statali. Alla fine della guerra 1915 – 1918, in base al trattato di San Germano dell’anno 1919, passò all’Italia e fu affidata, in virtù delle norme dello stesso trattato, che sancivano anche il mantenimento dei diritti di servitù di qualsiasi natura esistenti nel territorio (di legnatico, pascolo, caccia…) al Demanio dello Stato Italiano. Con l’emanazione della Legge 27.3.1929 n° 848 sugli Accordi Lateranensi, i Patrimoni del Fondo di Religione ex austriaci, in base agli art. 18 – 19 della stessa legge, furono uniti ai Patrimoni Riuniti ex Economali Italiani». (Ministero dell’interno. Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione. La storia, op. cit.).

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Erano, ad un certo punto, minatori anche gli abitanti di Laglesie/Leopoldskirchen, e se sì dove? Nel Canal del Ferro si viveva di miniere, molto più diffuse di quanto si pensi ora, e così anche a Raibl ed in Carnia. E vicino alle miniere fiorivano le fucine. Roberto Zucchini segnala miniere ad Ugovizza, in particolare nella stretta forra del Rio omonimo, in località “Cristo”, sul Monte Cocco, zona sfruttata dal punto di vista minerario pare sin dall’epoca romana, anche se si hanno dati certi solo a partire dal XV-XVI secolo, quando gente del luogo o minatori provenienti dalla Stiria iniziarono a coltivare delle mineralizzazioni a Nord-Ovest di Ugovizza o Cuniza che dir si voglia. (Roberto Zucchini, Miniere e mineralizzazioni, op. cit., pp. 24- 25, p. 70, p. 71, p. 73). Inoltre «Nella Valle del Fella (Val Canale) i signori di Brazzà impiantarono fucine per la metallurgia del ferro e del rame nel 1486 e 1498». (Roberto Zucchini, Miniere e mineralizzazioni, op. cit., p. 24). Minerali vennero cercati anche in località La Buca sul Monte Bruca, ma non pare che in queste zone sia mai iniziata una vera e propria attività estrattiva. (Ivi, p. 74).

Sia l’attività estrattiva che quella delle fucine era regolata da leggi rigorose, ma la Val Canale «ha avuto leggi e tradizioni minerarie completamente diverse rispetto a qualsiasi altra parte del Friuli, perché è diventata parte integrante dell’Italia solo dopo il primo conflitto mondiale. Essa apparteneva al Vescovado di Bamberga, successivamente alla casa d’Austria e solo per pochi anni, con la guerra gradiscana del 1616, fu sotto la dominazione veneta. (Ivi p. 18). E, «Come si era verificato in altre aree del Friuli, anche qui vi fu afflusso di manodopera “tedesca” e la località chiamata “Capanne di Knappen” presso Ugovizza ben può ricordare i canopi, termine tedesco utilizzato per indicare gli operai minerari», (Ibid.) e si sa che dalla Slesia giunsero in Val Canale tecnici ed imprenditori per seguire e studiare l’attività estrattiva, mentre la gran parte della popolazione stanziale, allora a  Laglesie/Leopoldskirchen e di ceppo slavo, era dedita all’allevamento ed alle attività legate allo sfruttamento del bosco.

Il bosco era una delle fonti di reddito per gli abitanti di Laglesie/Leopoldskirchen.

Con la terza incursione veneta nella Valcanale, avvenuta nel 1616 con la guerra gradiscana, e con l’aumentare della penetrazione di popolazione italiana in detto territorio, aumentò pure il numero di imprenditori italiani interessati all’estrazione del ferro, alla sua lavorazione ed al suo commercio. Ma a metà del 1700, si verificò una crisi generalizzata dell’industria del ferro, che portò ad una limitazione degli scambi commerciali. La diminuita importanza della valle, unita al forte depauperamento dei boschi, che avevano alimentato per secoli miniere e fucine, fecero mutare la situazione politica. Per questo, nel 1759, il vescovo di Bamberga cedette i beni della signoria di Federaun, territorio appartenuto per secoli al Vescovado, alla casa d’Austria. (Ivi, p. 74).

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Da don Gariup si viene a sapere, poi, che il paese ora chiamato Laglesie/ Leopoldskirchen, a causa delle sue origini, era, in precedenza chiamato pure Dieb -holz- Kirchen, cioè “chiesa di legno del ladro”, (Ivi, p. 25), ma detta denominazione era avversata dalla  popolazione, e quando don Stefano Kokianzigg o Cočiančig, parroco del paese dal 1807 al 1812, la riesumò, ponendola sia sul sigillo parrocchiale che sull’intestazione delle “carte per la confessione”,  si scatenò un putiferio. Infine il parroco dovette cambiare il nome della parrocchia da DiebholzKirchen in Dipoltskirchen, sino a giungere a Leopoldskirchen, nome ufficiale dato al paese dal governo regionale e dall’Ordinariato vescovile di Klagenfurt nel 1934. (Mario Gariup, op. cit., pp. 193-194). Ma sulla vita dei parroci così scriveva don Prima Lapusch, parroco di Lagelsie/Leopoldskirchen dal 1836 al 1844: «In questo piccolo luogo, da qualsiasi parte il parroco beva anche un solo bicchiere, per una parola che egli dica, lo viene a sapere tutto il paese, per cui è facile rinfacciargli ogni sua minima inavvertenza nel parlare». (Ivi, p. 195). Ma neppure i parrocchiani erano tutti santi, visto che lo stesso Martino Kowatsch aveva trascurato la scuola per andare a fare l’oste, sperando in maggiori guadagni, e si era presentato ad insegnare in 15 giorni una volta sola. Avendo il parroco protestato per questa sua trascuratezza, Martino Kowatsch se l’era legata al dito, ed aveva trasmesso il suo odio per il parroco a tutta la parentela. (Ivi, p. 195).

E poteva accadere, in val Canale, che un sacerdote, anche se esercitava bene il suo mandato, fosse licenziato dai parrocchiani, come accaduto a don Gregorio Wazenigg, parroco di Ugovizza, a cui gli abitanti di del paese avevano trovato ogni limite fisico per mandarlo via, volendo caparbiamente come loro parroco don Giovanni Battista Muner. (Ivi, pp. 192- 193). E non fu l’unico caso.

Edicola religiosa nei pressi del ponte vecchio.

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Non è chiaro, da don Gariup, quanti fossero, nel villaggio di Laglesie/Leopoldskirchen, gli aderenti al protestantesimo, né quanti i socialisti nel 1800- 1900, anche se egli accenna sia alla presenza degli uni che degli altri. Per esempio alle pp. 173-174 del suo volume citato scrive che, essendosi recato Giacomo Maracco, vicario del Patriarca, nel 1566, dopo il concilio di Trento, in visita in Val Canale, aveva trovato nella canonica di Prete Cristoforo, a cui era affidata la cura d’anime di Pontebba imperiale, Ugovizza, San Leopoldo, una Bibbia ritenuta protestante. Così aveva fatto affiggere alla porta della chiesa del paese una citazione di comparizione davanti all’ inquisizione per il prete e gli aveva tolto subito la cura d’anime.
Ed in effetti pre’ Cristoforo Muchiz, parroco di Cunizza, cioè di Ugovizza, risulta sottoposto a processo formale a Tolmezzo dal 19 agosto 1590 al 27 luglio 1591 assieme a pre’Pietro Nuspamer, curato di Camporosso, ma per favoreggiamento di eretici, e condannato, come l’altro sacerdote, a scomunica in contumacia e privazione dei benefici. (“Elenco degli atti processuali dell’Inquisizione di Aquileia e Concordia a Tolmezzo”, in: Andrea Dal Col, Note d’archivio sull’Inquisizione e il perseguimento della magia a Fusea-Tolmezzo, Forum ed., p.23, in: www.forumeditrice.it/percorsi/storia-e-societa/).
Ma poi risulta che nel 1593 il curato di Malborghetto, Giorgio Petrolo, aveva sporto denuncia per eresia nei confronti del prete di Ugovizza, chiedendo che fosse arrestato. (Ivi, p. 174). Forse si trattava sempre di Pre’Cristoforo, scomunicato in contumacia, o forse di un suo successore. Mario Gariup ritiene che pre’ Cristoforo e pre’Cristoforo Muchiz fossero due persone diverse, e pone il secondo come sacerdote ad Ugovizza nel 1595, ma vi è una certa confusione.

Comunque sia come sia, ad un certo punto dell’anno 1594, la cura d’anime di Ugovizza, San Lepoldo e Pontebba Imperiale fu affidata ad un pievano “del tutto ortodosso”, presumibilmente Mattia Bonderliz, che, ubbidendo agli ordini ricevuti, iniziò a celebrare messa. Ma immediatamente 120 donne, armate di forche e sassi, irruppero nella chiesa urlando, sobillate dal sagrestano e dal maestro di scuola. (Ivi, pp. 174-175). Alla fine del1596, poi, i contadini di Ugovizza licenziarono il parroco con “furia rusticale” ma furono costretti a riassumerlo in servizio, ed allora iniziarono a non partecipare alle funzioni religiose, a trascurare gli edifici di culto, a rifiutare di confessarsi e di comunicarsi se non gli fosse stato dato anche il calice oltre che il pane eucaristico (Ivi, p. 176) non si sa se per ripicca, se perché volevano mantenere antiche consuetudini, o per influssi Hussiti.

E si sa, sempre da don Gariup, che, all’epoca di questi fatti, il luteranesimo era molto praticato in Val Canale, tanto che don Mattia Bonderliz scrisse al Patriarca che non poteva, per paura dei paesani, rifiutare ai protestanti la sepoltura in cimitero, e che di ciò egli informasse il Vicedomino di Wolfsberg. Inoltre i fedeli minacciavano di obbedire solo a Bamberga e non al Patriarca. (Ivi, p.175-176). Pare che i capo in testa di tali ribellioni fossero: Zuan Micos e  Paolo Stolzo di Pontebba Imperiale, e Lorenzo Döller, waldmeister, il quale era un sostenitore della comunione sotto le due specie. (Ivi, p.175). Il Micos e lo Stolzo, poi, avevano pure «perseguitato e battuto» pre’Cristoforo Muchiz (Ibid).

Ma in Val Canale i contenziosi fra sacerdoti e popolazione non furono pochi; e mentre i primi accusavano i loro fedeli di vivere in modo iniquo, come bestie, (Ivi, p. 182) e di non pagare quanto dovuto per il sostentamento del clero locale, alcuni della popolazione accusavano i sacerdoti di vari peccatucci neppur tanto veniali. (Cfr. Il capitolo: “Parroci e sostituti” in Mario Gariup, op. cit., pp. 169- 226).

Comunque nel 1750 le parrocchie della Val Canale passarono dal Patriarcato di Aquileia all’Arcidiocesi di Gorizia, e quindi San Leopoldo, presumibilmente nel 1770 o 1771, fu scisso da Ugovizza e divenne parrocchia a se stante. Primo parroco a Laglesie/Leopoldskirchen fu don Urbano Trippe. (Ivi, p. 189). Ma la parrocchia non ebbe vita facile, perché mancavano sacerdoti da mandare in quel piccolo paese di circa 320 anime. (Ivi, p. 191). Infine dal 4 ottobre 1812 le parrocchie della Val Canale passarono dalla Diocesi di Lubiana a quella di Udine. (Ivi, p. 191).

Per quanto riguarda la presenza a San Leopoldo di socialisti,  don Gariup scrive solo che, nel 1890, aveva vinto il Partito Sloveno Cristiano, contro ogni aspettativa, in quanto Laglesie/Leopoldskirchen era paese di socialdemocratici, (Ivi, p. 96), e che, nel secondo dopoguerra, don Stefano Battigelli, non si sa però per quale motivo, non era riuscito a creare nel paese alcun ramo dell’Azione Cattolica, cosa del resto accaduta in altri comuni della Valle, riducendosi, nel 1951, per non far brutta figura e sollecitato dal Vescovo, a creare sezioni praticamente figurative, acquistando egli direttamente alcune tessere. (Ivi, p. 223).

Zona Ponte vecchio e antico guado romano in San Leopoldo.

Dal suo libro si sa, inoltre, che le contese tra la popolazione veneta e austriaca per i confini portò, nel 1756, alla sottoscrizione di un Trattato, in Gorizia, da parte del Commissario Generale del Governo Austriaco e del Commissario del Senato Veneto, he definiva, dopo studio adeguato del territorio, in modo analitico gli stessi. Vennero così  posti cippi di frontiera che non si potevano toccare. Infatti «Tra gli italiani e i sudditi del Vescovado di Bamberga le contese erano all’ordine del giorno: ruberie di bestiame da parte degli austriaci corrispondevano ad analoghe azioni da parte italiana; pascoli abusivi di entrambi […],; tagli di legname ai due lati di un confine incerto e provvisorio; sequestri di pastori , ecc.». (Ivi, p. 78).

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Al termine del suo lavoro, don Gariup cita delle azioni di vandalismo locale definite impropriamente delle “Brigate Rosse” forse nel senso che erano state attribuite da qualcuno a dei giovani comunisti, ma che potevano esser state fatte anche da giovani ubriachi o, nel secondo caso, da bontemponi o da persone che non volevano che lavorasse “quella ditta” o per furto, o altro motivo.
«23 dicembre 1978: Brigate Rosse – scrive don Gariup – A notte inoltrata alcuni giovani di S. Leopoldo inveirono contro la vecchia casa canonica rompendo i vetri del portone d’ingresso e delle 4 finestre della facciata del primo piano. Si sono arrabbiati contro gli scuri fracassandone tre. (…). 9 settembre 1979: la ditta Veronese Gino da La Salute di Livenza (Venezia) che lavorava per la costruzione di alcune case di S. Leopoldo fu ostacolata dalle “brigate rosse” di S. Leopoldo. Alcuni giorni prima avevano asportato degli attrezzi dal suo cantiere, poi rubarono la macchina della ditta che fu ritrovata sconquassata a Tarvisio» (Ivi, pp. 137-138).

Racconta don Gariup mille altre storie del paese e calamità che lo toccarono: alluvioni incendi pesti, invasioni e liti; la scelta per il Terzo Riech delle famiglie tedesche; il filonazismo di don Luigi Rizzardi; soldati e truppe che avanzavano e chiedevano, in un paese già poverissimo; la prima guerra mondiale come austriaci e gli inviti alla popolazione per risparmiare cibo e per altri motivi; il desiderio dell‘Italia, che aveva occupato la Val Canale durante la prima guerra mondiale, di portare gli abitanti di ceppo slavo del paese in Bosnia (Ivi, p. 55), notizia su cui cerco conferme, e non solo.

Inoltre in località Dobje (Rio degli uccelli), in posizione strategica, fu fatto costruire, veramente, un forte, non un castello, dal Vescovo di Bamberga, con il permesso di Rodolfo D’ Asburgo, Arciduca. (Ivi, nota 63, p. 60).

Moderna segheria “dm diemme legno” in località Dobje.

E con questa informazione termino qui questo mio secondo articolo su San Leopoldo, chiedendo di commentarlo se lo si desidera, di scrivere la fonte se lo si vuole citare, ed invitando a leggere anche il piacevole volume di don Mario Gariup.

Le immagini che corredano l’articolo sono mie, cioè di Laura Matelda Puppini e sono state scattate il 3 giugno 2017. Gli affreschi della chiesa di Laglesie/Leopoldskirchen sono stati eseguiti da Antonio Morocutti di Pontebba e Decio Deotto di Verzegnis, diplomati all’Istituto d’arte “Carmini” di Venezia, dal 1946 al 1948. (Mario Gariup, op. cit., p. 140). Per Antonio Morocutti esiste una scheda biografica in: http://www.dizionariobiograficodeifriulani.it, mentre non è presente alcuna biografia online del Deotto, pur esistendo riferimenti alle sue opere.

Esistono diversi testi sulla Val Canale e sulla Foresta di Tarvisio; su San Leopoldo sono stati pubblicati, di recente,  due articoli su: “Società Friulana di Archeologia – Bollettino n. 2 – Anno XXI. Luglio 2017 – Numero Speciale per il XXIX agosto archeologico in Carnia e dintorni”: “San Leopoldo la leggenda delle origini, di Alessandra Gargiulo; “San Leopoldo e i diritti di servitù”, di Fausto Buzzi; oltre che uno sulla “La strada romana della Val Canale, il suo ruolo durante l’Alto Medioevo”, di Mirta Faleschini, a cui rimando, come al mio precedente “Ipotesi e riflessioni dopo aver passeggiato a La Glesie /Leopoldskirchen, ed ascoltato studiosi locali” in: www.nonsolocarnia.info, che ho corretto.

Laura Matelda Puppini

 

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