Mi ha stupito e piacevolmente sorpreso, ieri sera 1° settembre, il film “L’uomo che piantava gli alberi”, proposto in occasione della “Giornata ecumenica per la custodia del creato”, che riprende il noto racconto di Jean Giono, ed ha come protagonista Elzéard Bouffier, il pastore che da solo riforesta ettari di suolo arido sulle Alpi francesi. Mi ha invece colpito negativamente il silenzio della platea, benché la sala fosse quasi piena, perché ho assaporato un clima, peraltro percepito anche in altri ambienti e situazioni, ove il dialogo ed il confronto sono dimenticati, sono usciti dalla porta di Gerusalemme, direbbe Raniero La Valle, inaridendo sia la vita spirituale che quella materiale. Io credo che ciò accada anche a causa della politica, che parla solo lei, fino quasi a diventare logorroica. Le funzioni del parlare e dell’ascoltare paiono scisse con il popolo che ascolta ma teme di parlare, e la politica che parla, parla, parla in modo autoreferenziale, senza affrontare problema alcuno, quasi si fosse in un tribunale perenne, e non ascolta. Siamo forse nuovamente considerati un “popolo bue?” – penso fra me e me.

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“L’uomo che piantava gli alberi” si presta a molte riflessioni.  La prima è sullo studio e sulla realizzazione di un progetto. Con passo calmo e regolare cammina sulla terra brulla il pastore, con i suoi semi nella bisaccia, compiendo le stesse azioni senza fretta ma con precisione, costanza, metodo. Nulla è affidato al caso ed all’improvvisazione, dall’accurata scelta dei semi migliori che potranno più facilmente germogliare, alla scelta del terreno per la semina, che non deve essere arido, alla previsione che molti semi andranno perduti e non daranno frutto. «Da tre anni – scrive Jean Giono – piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva piantati centomila. Di centomila, ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila, contava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quel che c’è di imprevedibile nei disegni della Provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non c’era nulla…».

Ma non piantò solo querce Elzéard, il solitario, il silenzioso, piantò anche pioppi, faggi, e se inizialmente portò con sé un gregge di pecore, che potevano vivere in quell’ambiente di rocce, sterpaglia, radure, poi, quando la fioritura iniziò, passò alle api, che meglio si sposavano con il nuovo contesto naturale. Volto al risultato, egli non volle bruciare tempi e speranze, e procedette in modo logico e sequenziale, in armonia con la natura, ottenendo dei buoni risultati.
Questo dovrebbe far riflettere sul mondo della fretta, del basta fare magari a caso, della rottamazione di ciò che è stato costruito anche positivamente e con sacrificio, quasi in spregio, magari solo per guadagnare o risparmiare, o apparire, senza progettualità, senza cura, senza studio, senza approfondimento, senza pazienza.

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La seconda riflessione riguarda il trascorrere del tempo ed il suo viverlo. Non ha orologi Elzéard, cammina di giorno e dorme di notte, come si faceva un tempo, anche quando io ero piccola, e non vi erano movida e tv, e neppure tante automobili, rally, inquinamenti, rumori e tensioni nell’ aria. Un tempo la giornata cristiana era scandita dalle campane del mattino del mezzogiorno e della sera, l’anno e le stagioni dalle feste comandate, e si andava da Pasqua a San Michele, da San Martino al Natale, per poi ricominciare.

Il mondo ed il tempo vissuti da Elzéard appartengono al passato, ma devono far riflettere sul limite del nostro vivere frenetico, che non porta a nulla, se non a guadagnare per vivere. “Avere o essere?” – intitolava Erich Fromm un suo famoso volume. Non è quesito di poco conto, e quella “ o “ che oppone i due termini, non è posta a caso. O si vive per avere o si vive per essere, ma quanto sceglie per noi una società basata sul mero denaro, che pomposamente si nasconde dietro il mito del “neoliberismo”, che nessuno sa cosa sia realmente se non un ritorno al passato, ad un mondo di re, principi e principesse, con vari feudatari al seguito, che parlano, disquisiscono decidono, come fossero il Re Sole, e dove il denaro fa la differenza? E naturalmente ogni corte ha i suoi cortigiani, i suoi lacchè, i suoi banditori … A quale secolo stiamo ritornando indietro? – penso sconsolata.

Attualmente non è possibile che tutti possano e desiderino vivere il tempo come Elzéard, un tempo vissuto in senso monastico più che da città, più che da modernità, ma qualcosa si può recuperare, come pure il valore del silenzio, non per timore o incapacità di parlare.

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«L’educazione al silenzio iniziava molto presto. Insegnavamo ai nostri bimbi a sedere in silenzio ed a gioirne. Noi insegnavamo loro ad usare i sensi, a vedere quando pareva non ci fosse nulla da vedere, ad ascoltare con attenzione quando tutto appariva tranquillo. Noi amiamo il silenzio, non ci disturba. Quando il topo gioca vicino a noi, quando il vento del bosco fa frusciare le foglie, noi non abbiamo paura».  (testo Dakota).

E così scrive Enzo Bianchi, monaco laico e saggista italiano, fondatore della Comunità di Bose: «Viviamo in un’atmosfera di rumore assordante, non solo esteriore, ma anche interiore, i cui effetti ricadono su tutta la nostra vita, sempre più vuota, superficiale, impermeabile a ciò che richiede un ascolto e un’attenzione vigilante. Siamo saturi di informazioni come di pubblicità, eccitati da impressioni molteplici ed eterogenee, e così ci sembra che l’unica difesa sia diventare a poco a poco indifferenti quasi a tutto, se non cinici. Parole, suoni, rumori, immagini vogliono calamitare la nostra attenzione e cercano l’emozione, la novità, il sensazionale, la sorpresa.
Viviamo sovrastimolati, con tanti “fornitori di contenuti” che si preoccupano dell’audience, mentre “l’ascolto” è atteggiamento sempre più raro. E il silenzio, che all’ascolto è indispensabile, ci inquieta perché è percepito come una forma di passività, una patologia, una zona della nostra esistenza spiacevole ed estranea, nella quale ci capita magari di finire, ma dalla quale vogliamo uscire al più presto, come dal buio, dal vuoto, dal nulla. (…).

Il silenzio, […] non è un atteggiamento aristocratico, non è un elemento esclusivo della mistica, né un esercizio di nobile interiorità, ma appartiene all’arte della comunicazione, consente di vivere in modo fecondo la solitudine, favorisce l’ascolto attento, affina le nostre facoltà discriminatorie e percettive, induce alla creatività. (…). Stare insieme, accanto a un altro, nel silenzio è una delle esperienze più forti che permettono al dialogo verbale l’approfondimento e la scoperta di altre dimensioni. Del resto, ciascuno sa per averlo sperimentato che nelle relazioni umane più intense, come quelle tra amanti o tra amici, proprio il silenzio garantisce la percezione dell’alterità, del mistero dell’altro. (…)».  (Enzo Bianchi, Il valore del silenzio, in: www.abbaziaborzone.it/).

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Ed ancora: guardando questo film, ho pensato alla contrapposizione tra la terra che non germina e Gaia, la Madre Terra, il pianeta che vive, rappresentato dagli alberi e dall’acqua, mentre don Pietro Piller ha ricordato, commentandolo, San Francesco.

L’ importanza dell’acqua, nel racconto animato, è resa palese dalla sete del viandante narratore, che vaga senza potersi dissetare fra rovine di abitazioni e terra brulla sferzata da un vento vigoroso e che non dà tregua. Poi l’incontro con il pastore che gli porge la borraccia. Si può vivere per un po’ senza mangiare ma non senza bere. In questo film la sacralità antica dell’acqua come fonte di vita viene in più punti riproposta, mentre il mio ricordo vola alle mura di Micene, poste anche a difesa della sua sorgente.

Infine il film mostra la guerra come distruzione dell’ambiente e la pace come aspetto fondamentale per la vita comune che rinasce nei piccoli villaggi, sorti nei pressi dei boschi seminati dal paziente Elzéard. Come non pensare al soggettivismo che nega qualsiasi senso della comunità ora, qui come là? «Io i fas il gno fat» (io faccio gli affari miei) è regola d’oro se viene vissuta come un rispetto verso l’altro e verso la sua intimità, ma può diventare pure scusante per non guardare alle esigenze altrui, per rifiutare il confronto e di fatto isolarsi nel culto del proprio “io”.

Infine come non andare con la mente, guardando questo film, agli scempi che l’uomo, per mero interesse finanziario, fa all’ambiente, ponendo in pericolo la vita stessa dell’umanità attraverso cambiamenti climatici irreversibili, la perdita dell’acqua potabile, ed altri disastri a seguire?
La foresta fluviale in Bolivia giungeva sino a due passi dalla Missione in cui mi trovavo – raccontava ieri don Piller – Quando ritornai si era allontanata di chilometri e chilometri, e si procedeva disboscando per fare terra per coltivazioni, alterando l’ambiente per sempre e distruggendo il polmone del pianeta.  La follia umana pare non abbia limiti, penso fra me e me, ascoltandolo.

Ed infine come non pensare alla nostra Carnia, al bosco che invade a valle e viene tagliato e venduto in alto, ove è centenario, per ettari ed ettari che rappresentano metà del Comune di Ligosullo, una buona parte di quello di Prato Carnico, ed altro ancora? E come non pensare ai fiumi resi torrenti, alle sorgenti che si prosciugano, al Lago di Cavazzo? Abbiamo avuto cura dell’ambiente per i nostri figli e nipoti? Non credo proprio. Il bosco e l’acqua devono essere bene pubblico, diceva ieri don Piller. Come si fa a non dargli ragione?

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Ma difendere l’ambiente, e quindi la vita presente e futura, dal suo degrado, finalizzato al denaro ed agli interessi di pochi, non è semplice. L’Ong Global Witness ha denunciato che ben 200 attivisti in difesa del creato e della natura sono stati uccisi solo nel 2016.
«La battaglia per la tutela del pianeta sta diventando sempre più dura e sta aumentando il prezzo in vite umane”, dice Ben Leather di Global Witness. L’aumento denunciato dalla Ong è preoccupante – nel 2015 le vittime erano state 185 – ma anche il numero dei Paesi coinvolti è aumentato (24 nel 2016 contro 16 nel 2015). Le cifre, purtroppo, rischiano di essere imprecise per difetto ed “è probabile che il numero reale” degli uccisi “sia più alto”, ha dichiarato l’organizzazione, che si occupa di elaborare questo censimento da 15 anni.  “Il 40% dei morti – ha sottolineato l’Ong – è rappresentato da individui delle popolazioni indigene”, che abitano in quei territori da generazioni e che ora devono fare i conti con le società che hanno monopolizzato quelle aree. In alcuni casi, le proteste pacifiche hanno subito una dura repressione da parte della polizia locale, con la conseguenza di finire nel sangue, […]. A registrare le perdite più numerose, tra coloro che sono coinvolti nella tutela del territorio, foreste e fiumi, è stato il Brasile, con 49 morti. Subito dopo c’è la Colombia, con 37, mentre il terzo gradino del triste podio è occupato dalle Filippine (28). Infine c’è l’India, con 16 vittime». (http://www.repubblica.it/ambiente/2017/07/13/news/ambiente_la_denuncia_di_global_witness_nel_2016_uccisi_200_attivisti_-170693430/).

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Infine, parlando, dopo la visione del film, con una persona che conosco del più e del meno, mi è venuta in mente una frase di una canzone di Giorgio Ferigo: “Duta chesta straciarìa”. Produciamo, iperproduciamo, in sistema concorrenziale, e ci riempiamo di scarti e rifiuti, di cui inondiamo terre, mari, prati, boschi, trasformando Gea, l’Eden, in un immenso immondezzaio di cose non biodegradabili, di veleni da noi prodotti. Bisogna consumare di meno e godere di più di quello che Dio ci ha dato, sempre che siamo ancora in tempo.  L’impegno è e deve essere comune, ha detto alla fine una Signora, proponendo una preghiera. Ma ogni singolo non può fare nulla se chi governa non pensa, non studia, non ascolta, non si confronta, intento a parlare, parlare, parlare, non si sa, alla fine, di che cosa.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda il testo è stata da me scattata nell’agosto di quest’anno. Laura Matelda Puppini

 

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