Ieri ho posto qui alcune considerazioni sul nuovo codice di comportamento Arcs, che pare segua, nelle indicazioni sull’uso di media, social e rapporti con la stampa, quello della Regione Fvg. Da questo testo io ho capito che nessun lavoratore Arcs può parlare del suo lavoro ma questo limita davvero l’espressione personale, oltre che impedire ai cittadini di essere informati su di un servizio pubblico, finanziato con i loro soldi, e che è di pubblico interesse, non su come funziona una ditta che, magari, produce fagioli in scatola. Inoltre l’uomo lavoratore, la persona che lavora, (non che ha un lavoro, che è concetto diverso) non può essere scissa dalla persona che vive anche in famiglia, dalla sua personalità, dai suoi sogni dai suoi desideri, quando il lavoro, tra l’altro occupa gran parte del suo tempo. Inoltre non credo che Arcs Fvg sia paragonabile ai servizi segreti.

E non reputo che queste considerazioni pura invenzione, ma frutto del buon senso: infatti una persona non può non parlar mai di un ambiente in cui vive moltissimo tempo, di cui condivide o subisce scelte e problemi, limitando le comunicazioni tramite social ecc., come vorrebbe il codice comportamentale dipendenti Arcs, ad aspetti non legati in modo alcuno all’ ambiente di lavoro ma solo domestici e personalissimi, che hanno sempre orecchie pronte ad ascoltare, e che quindi è preferibile non divulgare. Inoltre la possibilità data dallo smart working pone più di qualche problema, dato che i muri di una casa non sono insonorizzati, e tra le mura domestiche può vivere più di una persona.

Inoltre, seguendo queste linee,  chi lavora potrebbe andare a finire come questa signora di 36 anni, che così scriveva: «Le poche relazioni che ho (che sono quelle con i miei genitori e con i colleghi di lavoro) sono relazioni superficiali. Non ho rapporti di alcun altro tipo, e anche con queste persone da anni ormai (forse da sempre) non parlo mai di nulla. Mi esprimo per luoghi comuni, frasi fatte, domande retoriche, ripeto discorsi sentiti da altri. Non ho né dialoghi né legami con nessuno, sono sempre sola». (https://www.psicologi-italia.it/ansia-e-depressione/depressione/domande-psicologo/non-ho-praticamente-nessuna-relazione-interpersona.html).
Tale atteggiamento veniva ritenuto dallo psicologo che rispondeva, indice di depressione, senza valutazione alcuna della storia della signora e dei suoi ambienti di vita.

Ora anche il non poter parlare mai del proprio lavoro, è possibile che possa portare a depressione, ma il codice comportamentale Arcs pare non tenerne conto. Pare che ad Arcs, ente pubblico, che vive di soldi pubblici e quindi nostri, ed è in regime di monopolio, basti poter nascondere sotto il tappeto tutte le sue contraddizioni e problematiche, che sicuramente ha, come ogni altra azienda, basta che le stesse restino fra le quattro mura, e non vegano conosciute o socializzate, anche se si investono soldi dei cittadini, e che i vertici impongano, lasciando tutti “a bocca asciutta” dal punto di vista informativo reale, solo il loro punto di vista, producendo unicamente comunicati ad hoc, simili a quelli che talvolta, per altre realtà, si leggono sul Messaggero Veneto o su La Repubblica, che definirei celebrativi ed agiografici. Inoltre ambiente di lavoro e di vita non possono scindersi, in quanto anche l’ambiente di lavoro è ambiente di vita, a meno che uno non abbia una idea ‘sdoppiata’ e francamente un po’ ‘schizofrenica’ dell’esistenza umana.

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Tra i miei soliti ritagli, esiste anche un articolo da: L’ Espresso, numero 14 febbraio 2013, a firma di Enrico Arosio che riporta un colloquio con Jean Nouvel, grande architetto francese, intitolato: “Casa è ufficio”. Sottotitolo: “In un mondo che cambia, le tradizionali distinzioni tra abitare e lavorare, tra tempo del fare e tempo del vivere, diventano obsolete. Gli spazi andranno riprogettati. Il futuro secondo il grande architetto”. Ma questo articolo non parla solo di progettazione, parla anche di vita e società. Vediamo insieme perché.

«Il lavoro d’ufficio: inferno o paradiso? Dove ci collochiamo lungo la linea ideale tra l’alveare di massa e la realizzazione di sé? Non è facile rispondere, molto dipende dalla nostra attività. Ma una novità c’è: sempre più spesso l’ufficio non è più spazio esclusivo, perché grazie alle tecnologie digitali si opera anche a distanza, da casa, in viaggio; e negli uffici si introducono elementi di confort domestico, spazi comuni per favorire la socialità e spirito di squadra. Persino l’open space, questo totem della modernità, si declina in modi nuovi.

Il rifiuto dell’ufficio totalitario, degli spazi clonati e ripetitivi è un tema che appassiona uno dei grandi architetti contemporanei, il francese Jean Nouvel.

A lui il Salone del Mobile di Milano […] ha commissionato un progetto ad hoc, chiamato “Ufficio da abitare”. Sei riflessioni spaziali, dall’appartamento tradizionale al loft industriale, per esplorare le nuove declinazioni del lavoro dei colletti bianchi […]. (…)». (Enrico Arosio, Casa è ufficio, cit.).

Così ha risposto Nouvel alla prima domanda dell’intervistatore: «Nello spazio che realizziamo a Milano poniamo, con molta libertà, la questione dell’ufficio contemporaneo. Il tema della mutazione che stiamo attraversando. Quello che mi ha sempre colpito, negli spazi di lavoro, sono la ripetizione e l’anonimato. E vale anche per la mia idea di architettura. Mi sono espresso tante volte contro quelli che chiamo “clonage et parachutage”. Il fenomeno, ormai planetario, dei lavoratori paracadutati in ambienti ripetitivi. Mi sono pronunciato, insieme a Jean Baudirllard, sulla questione della singolarità, insomma ci ragiono da venti anni. (…). Lavorare è abitare».

D: «Non è affatto un’ovvietà. I due ambiti sono stati tenuti separati a lungo».

«Infatti. Ma per una parte delle popolazioni contemporanee già oggi vige l’abitudine di lavorare a casa propria, oppure in spazi che non erano stati previsti come uffici. Ciò si accompagna a fenomeni di mutazione urbana molto forti: veri e propri traslochi territoriali.

Nelle città si è costruito così in fretta e così male che siamo costretti ad approfondire e riqualificare interi territori. Temi che ho svolto nella mia ricerca per il progetto governativo Grand Paris, da cui emerge che bisogna assolutamente incoraggiare i fenomeni di mutazione».

D: «Perchè»?

«Perché le nostre vite sono irrigidite dai regolamenti. E al tempo stesso è necessario trasformare i luoghi esistenti, per non consumare nuovo territorio all’ infinito. In una parola: riconversione. …. Ma per tornare al primo concetto, io mi batto da sempre contro una sorta di fatalità regolamentare. (…). La riconversione degli spazi è il solo modo di conquistare luoghi di lavoro non clonati, non ripetitivi. Alla fine forse scopriremo che, paradossalmente, i luoghi che non sono stati creati per il lavoro sono quelli dove si lavora meglio. (…)».

D: «Il suo progetto “Ufficio da abitare” quali soluzioni esplora

«Come lavorare in appartamento di taglio tradizionale, parigino o milanese; lavorare in casa, in un piccolo appartamento; in locali ex- industriali e spaziosi; in uno spazio a pianta libera e flessibile ricavato da un ufficio classico. … Ho cominciato chiedendo ad alcune personalità creative di parlarci brevemente, in forma video, delle condizioni in cui si lavora oggi, uno è Michelangelo Pistoletto. Ho introdotto una critica gentile al lavoro dell’impiegato alienato genere “Playtime” di Jacques Tati». (…).

D: «Come cambierà l’open space»?

«Penso a un ufficio in cui ciascuno possa modulare i propri mobili, creare un diverso rapporto col proprio vicino, proteggersi se necessario. È come un progetto di nuova urbanità, l’ufficio come forma urbana». (…).

D: «Le faccio una domanda come fosse un antropologo: il colletto bianco oggi ha più bisogno di ordine o di libertà?»

«Dipende dalla natura del lavoro e dell’impresa. Dal ruolo che deve impersonare: banchiere, agente immobiliare, creativo. Ci sono attitudini molto diversificate. Trovare la soluzione funzionalista ideale per tutti non ha senso. Gli imprenditori che fabbricano mobili per uffici devono ricordarlo».

«Guardi, la peggior cosa che il mercato impone è l’ufficio “en blanc”, l’ufficio in bianco. Siccome non si sa chi arriva, deve corrispondere a tutti. Scrivania 135 e così via. Vogliono il rischio minimo ma creano dei prigionieri.  (…). Io vedo con simpatia lo sforzo di personalizzare il posto di lavoro. Penso che i coletti bianchi debbano potersi esprimere, anche oltre la foto del bambino o la piccola pianta di fiori».  (…)».

D: «È vero che lei non ha un ufficio personale, separato? o è una leggenda»?

«È verissimo. Da sempre. Lavoro dove capita. Ho solo una sala riunioni».

D: «Lei, architetto- imprenditore, non dispone di un suo spazio rappresentativo»?

«No. Ciò che Lei definisce rappresentativo è il contrario di ciò che amo. Non mi ci riconosco. Gli studi di design, le agenzie di pubblicità dove tu entri e c’è la segretaria di direzione perfetta, le grandi foto impaginate al muro, i colorini espressivi verde mela o arancio: tutto questo mi ammazzerebbe.  Io preferisco immobili che hanno avuto una vita loro. (…)». (Enrico Arosio, Casa è ufficio, cit.).

Sul tema della ‘riconversione’, Jean Nouvel ha parlato poi, sempre nel corso della stessa intervista, dell’impossibilità, a suo parere, anche per chi fa il ‘designer’ di inventarsi continuamente oggetti nuovi, cancellando in continuazione il già prodotto e creando «oggetti sempre più performanti» dove performante «è la parola alla moda». Ed ha sostenuto che mobili d’epoca possono possedere qualità forti che durano nel tempo. (Ivi).

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Forse qualcuno si chiederà: ma L.M. Puppini, cosa c’entra questo con il codice deontologico del perfetto impiegato Arcs? C’ entra eccome, perché un grande architetto ci ha appena sottolineato come la vita personale sia un aspetto del lavoro; come ufficio e casa non possano essere globalmente scissi, nel senso che anche il luogo di lavoro, nel caso di impiegati detti volgarmente “colletti bianchi”, può essere pure personalizzato;  come non esistano nei soggetti due personalità: una lavorativa, ingabbiata, ed una ‘casalinga’ più libera, ma che potrebbe finire ingabbiata dalla società dei consumi, ma questo è altro discorso.

E se è vero il detto che non si deve “sputare nel piatto dove si mangia” però, fra l’altro proprio nel settore pubblico, non si può imporre a tutti il silenzio assoluto e la mera comunicazione istituzionale.

E se erro correggetemi.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che ho scelto per questo aritcolo rappresenta Giano bifornte, e l’ho posta a significare che così non può esistere una persona: con due volti, uno parlante (ambito privato) uno silenzioso (lavorativo con bocca chiusa). Essa è tratta da: https://www.ariannaeditrice.it/articoli/giano-bifronte. L.M.P. 

https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2022/12/giano-Immagine1.png?fit=400%2C400&ssl=1https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2022/12/giano-Immagine1.png?resize=150%2C150&ssl=1Laura Matelda PuppiniSenza categoriaIeri ho posto qui alcune considerazioni sul nuovo codice di comportamento Arcs, che pare segua, nelle indicazioni sull’uso di media, social e rapporti con la stampa, quello della Regione Fvg. Da questo testo io ho capito che nessun lavoratore Arcs può parlare del suo lavoro ma questo limita davvero...INFO DALLA CARNIA E DINTORNI