Questa chiacchierata con mia nonna Mariute, moglie di Lorenzo Puppini detto Ninc di Stroc e madre di mio padre, l’Ispettore Scolastico Geremia Puppini, si è svolta nel prefabbricato fornito ai cavazzini rimasti senza casa per il terremoto del 1976. E sarà lì che Mariute morirà, tre anni dopo. Erano presenti all’incontro anche mio padre e mia madre, la dott. Maria Adriana Plozzer.

Nonna Mariute ci ha raccontato della vita in paese, del lavoro, e di ciò che c’era e non c’è più, di malattie, disastri, del grande vento ed altro ancora. Ma sentiamo cosa ci ha voluto dire.

Mariute e Ninç.

Una volta ci si divertiva più di adesso.

Laura chiede come si viveva una volta, se si facevano feste.

Mariute: «Una volta ci si divertiva di più di adesso, si era capaci di fare un bel canto, si ballava, si andava in campagna, si stava in compagnia. Invece ora non canta più nessuno, se non gli uomini quando sono un po’ brilli all’osteria, e in paese non suonano e non ballano, ed anche quando suonano, invece che cantare, si perdono a parlare.

Una volta, però, quasi nessuno studiava, e gli uomini, a seconda della posizione sociale, o andavano fuori a lavorare o restavano, ma ben pochi, in paese. E la maggior parte di loro faceva il muratore o il falegname.
E se ne andavano via in primavera e ritornavano per l’inverno, che era una bella stagione perché si poteva stare a casa insieme, e i giovani si recavano ora in una casa ora nell’altra in gruppo. Invece adesso hanno tutti la macchina, e partono la sera e ritornano tardi, di notte, che pare che non rientrino più, e magari non sanno neppure loro dove sono stati.

E qui era molto sentito il Carnevale, con le sue mascherate. Tutti andavano in maschera, un tempo. E poi con il freddo i giovani, che il freddo non lo sentivano, “a si tiravin dongie”. E anche quando due si sposavano si faceva festa, e i “nuvic” invitavano tutti i parenti a pranzo, e ci si divertiva.
Poi c’era la festa di San Rocco. Ed a San Rocco il paese si riempiva. E venivano venditori ambulanti con le loro bancarelle da ogni dove, e c’erano bancarelle in ogni angolo, e tutti avevano un vestito nuovo da mettere per l’occorrenza, e tutti erano contenti a San Rocco».

Le donne lavoravano la campagna.

Mariute: «Le donne lavoravano la campagna e falciavano e seminavano e poi raccoglievano il granoturco, e facevano quello che si doveva fare. E quasi nessuna studiava. Insomma non è mica come adesso! E si lavorava in campagna dalla primavera fino all’autunno, e si era proprio contente quando veniva l’inverno e si poteva riposare un po’. Io non avevo bisogno né di prendere terreni in affitto né di lavorare per altri, perché avevamo abbastanza campagna. Ma in paese c’era anche chi non aveva terra a sufficienza da lavorare ed allora teneva ugualmente le bestie nella stalla, ma doveva prendere campi e prati a mezzadria.

Ed anche noi davamo da lavorare terreni ad altri, ed anche terreni in montagna, e poi metà del raccolto lo tenevano loro e metà lo portavano a noi. Ma io non controllavo se era veramente la metà, prendevo quello che mi davano, quello che mi portavano in casa. E così chi aveva tanti prati da falciare anche in montagna, e non ce la faceva da solo, poteva avvantaggiarsi, e ciò tornava utile pure a chi veniva a chiedere appezzamenti da lavorare, e non credere: c’erano tanti che avevano bisogno allora, che venivano a domandare, ma c’era anche tanta gente in paese».

Laura chiede se per portare il fieno a casa, legavano il carretto alla bicicletta.

Mariute: «Io portavo il fieno sulla testa. Poi avevamo anche la barella, ma prima non l’aveva nessuno. Ed in un giorno riuscivo a fare anche quattro cinque viaggi con il fieno sul capo, ed erano carichi da quaranta, cinquanta chili. Preparavamo i mucchi da portare, legati con corde, al mattino, ed al pomeriggio li portavamo a casa. Insomma si andava su e giù per la campagna tutto il giorno, un giorno dopo l’altro.

Invece ora non solo non si trova più nessuno che sfalci in alto, ma non si trovano più neppure i sentieri.
Almeno così mi ha raccontato Arturo di Olga, dopo esser stato in “Alc”. Insomma mi ha detto che, in “Alc” c’è tanta di quella sterpaglia, che non si riesce più ad andare avanti. Non si può passare! Arturo ed un altro si erano recati “là das presas”, e poi si erano mossi verso Daudac, ma niente da fare: non si riusciva a passare neppure lì. Ed erano andati a vedere una loro piantagione. Ma intorno era cresciuto tanto il bosco, che la piantagione che era nel mezzo non si vedeva più.

Comunque i prati e boschi sono in genere di privati, e quando ero bambina andavano su tutti in montagna a lavorare, a Dudac, in Forcja, dappertutto, mentre adesso non va più su nessuno, ma proprio nessuno, nessuno …
Ed un tempo portavano giù dalla montagna i carichi con le teleferiche, (cun las quardas) e portavano su quello che serviva.
Mettevano sulla teleferica il carico delle legna, o del fieno o del “patus” il fogliame per il letto delle mucche, ed in un batter d’occhio era giù. Ed in sei, sette od otto viaggi si aveva tutto in piano. E il giorno dopo era la stessa cosa, e così via … Per tanti anni, forse otto, forse dieci, le nostre montagne sono state attrezzate con le corde!
Invece adesso non ci sono più strade montane né sentieri, non ci sono più teleferiche, tutto distrutto, tutto …

Poi ogni famiglia aveva qualche animale, chi più chi meno. Tutti avevano la stalla con una o due mucche, e si tenevano anche galline e conigli. Qualcuno aveva le capre, ma poi sono sparite anche quelle (La legge detta “Serpieri”del 30.12.1923  vietò l’allevamento della capra, che era propria dei più poveri, per motivi forestali. Ndr.). E le famiglie tenevano anche il maiale e avevano magari qualche vitello.

I fratelli Squecco, di ‘chei di Squeta’, di cui facevano parte sia il padre di mia nonna Anna Squecco che il padre di mia nonna Maria Squecco, che erano cugine. Da sinistra guardando la foto: Tita, Pieri, Mabil, Vigi, Colò, Jacum, fotografati a Sonthofen di Immenstadt im Allgäu  – Baviera  – Germania. L’immagine è stata scattata nel Photographische Ateliers von F. (forse Fritz ndr) Heimhuber, a Sonthofen di Immenstadt. Detto studio fotografico funzionò nella cittadina tedesca probabilmente dal 1877 al 1963.

Nonno Lorenzo faceva il falegname, qui, con altri due. Ma aveva una falegnameria anche Perìn di Burèl. Ma dopo è finito tutto. E la segheria dove lavorava tuo nonno Ninc, il “laboratori”, era ben attrezzato e aveva la sega alla veneziana e tutti i macchinari che servivano. E lavoravano per tutto il paese. E comperavano il legno in Carnia. Dopo nessuno ha fatto più niente.  Distrutto il laboratorio, la falegnameria, al suo posto hanno fatto una casa tanto grande che ci potrebbe star dentro tutto il paese. E era così ben fatta che il terremoto non l’ha neppure scalfita! (Chi ha acquistato la falegnameria, che era rimasta forse solo in parte anche a mio padre, è stata, che io sappia, Cornelia D’Agaro Puppini, per ampliare ulteriormente la sua casa. Ndr). E adesso non ci sono più né falegnami né segherie, in paese!».

Tra le malattie, la peggiore era il “miliar”.

Laura chiede quali malattie ci fossero un tempo.

Mariute: «C’erano la tubercolosi, polmoniti, bronchiti, e c’era il “miliar”, che adesso nessuno sa cosa sia.  Questa era una malattia che quando te la prendevi dovevi stare a casa, altrimenti morivi. E ci si riempiva di bruschi rossi. E non è il fuoco di Sant’Antonio, perché quello viene solo in una parte del corpo, mente il “miliar” colpiva tutto il corpo, “al vignive a plen”. E quando uno si ammalava, i parenti dovevano chiudere porte e balconi, e mettere un telo davanti alla porta perché non entrasse aria. Perché quelli che si prendevano quel malanno, se esposti all’aria, morivano. E si diceva che quella malattia era originata dalle paludi che circondano Cavazzo, ma non era la malaria, perché quella si manifesta solo con febbri, ma io non la conosco. Ma ora il “miliar” è scomparso. Sembrava il morbillo, ma non era morbillo, perché con il “miliar” non si poteva neppure aprire la porta della camera».  (Il termine febbre miliare è stato utilizzato dei secoli passati per una malattia infettiva che provocava febbre acuta e prolungata, associata a eruzioni cutanee simili alla granella del cereale miglio, da cui “miliare”, e che poteva portare alla morte. Ora si chiama miliare una forma di tubercolosi. (https://it.wikipedia.org/wiki/Febbre_miliare. Ndr.)».

Alido chiede di cosa morivano in genere le donne, se di parto.
Mariute: «Se “a si tignivi da cont», se avevano cura di sé, non morivano, e se avevano cura dei bimbi neppure quelli morivano. Insomma se la gente aveva giudizio, non moriva nessuno».

Nella vita abbiamo avuto solo mali: guerre, flagelli e terremoti.

Laura chiede alla nonna di raccontare qualcosa della sua vita.

Mariute: «Ma per la verità nella vita abbiamo avuto solo mali: perché, forse, non sono solo mali le guerre, i terremoti, i flagelli, e cose di quel tipo?

Quando ero piccola, sono rimasta senza madre. È morta di polmonite. Allora anche tuo bisnonno doveva andare all’estero per lavorare. E gli era giunto il telegramma di presentarsi il 3 di marzo al cantiere, perché era un assistente edile. Tutti loro, fratelli, erano assistenti edili: Barba Mabil, Barba Rico da Rint, papà, Barba Vigi di Migòt… E loro partivano per primi perché dovevano cercare gli operai ed organizzare il lavoro. Allora mamma ha detto che era troppo contento per il lavoro ed anche perché era andato con noi ad abitare nella casa nuova, quella del segretario, e che lei era sicura che sarebbe accaduto qualcosa di brutto.
Prima stavamo lì “dal Moro”, ma a mia madre non piaceva la casa. Inoltre il Moro e Mia, pur avendo una abitazione molto grande, non avevano voluto venderne una parte ai miei, e così mio padre aveva deciso di andare ad abitare da un’altra parte. Ed erano tutti contenti. Ma mia madre gli aveva detto: “Sei troppo contento quest’anno!” E lui: “Ma almeno una volta che sia contento!”.

E così mio padre si apprestò ancora una volta, a partire. E mio zio Jacum di Filose, voleva andar lui a portare “il fagot”, il bagaglio a suo fratello, al posto di mia madre che aveva partorito da poco. Ma mia madre ha voluto andare lei fino a Stazione Carnia, ad accompagnare mio padre. Ma quando è tornata a casa, le è venuta la polmonite. Allora abbiamo fatto telefonare a mio padre che ritornasse a casa, perché non c’era più nulla da fare per mia madre. E mio padre è arrivato qui da Tolmezzo con Minot, attraversando il Tagliamento con la barca, perché allora non c’era neppure il ponte di Davons, ma c’era la barca. E quando è giunto qui gli hanno detto che non c’era nessuna speranza, perché l’infezione aveva preso a mia madre il cuore, e nel giro di due giorni mia madre è morta.

E a noi ha detto: “Inginocchiatevi tutte intorno al letto della mamma”. E mio padre ha messo la mia sorellina più piccola, nata da poco, vicino a mia madre, per darle un ultimo momento di conforto, e ha fatto inginocchiare noi altre tre intorno al letto a pregare. E noi abbiamo pregato ma … niente da fare, mamma è morta comunque. E aveva solo 34 anni. E così, quando eravamo tanto contenti per la casa, veniva a mancare tutto anche a mio padre.

E poi, quando ero grandicella, mio padre si è tornato a sposare, e sono nati i miei fratelli, così la famiglia è aumentata ed eravamo in tanti. E c’era un uomo solo in famiglia a lavorare, e così non si potevano avere certo comodità e star bene, e molte cose mancavano. E dopo è venuta la guerra, e si è andati di male in peggio, e non riesco più neppure a ricordare tutto quanto è accaduto fra terremoti, flagelli ed altro. Ed abbiamo avuto, per tutta la vita, solo confusione e guai. E prima mi è morta la madre, ed a tanti morivano i genitori, poi è venuta la guerra che è durata dal 1914 al 1918, e dopo l’altra del quaranta … E prima dell’ultima guerra c’è stato l’altro terremoto, quello del 1928. E c’è stato, talvolta, anche maltempo che distruggeva i raccolti in campagna. Ma, per farvi contenti, vi racconterò questa.

 

Laura Matelda e Alido con nonna Mariute, davanti alla casa di Ninc, poco prima del terremoto. Marzo 1976. 

Quel grande vento che ribaltò anche l’asino con il carretto.

Geremia era piccolino, avrà avuto si e no quattro anni (Geremia Puppini era nato nel 1921 Ndr.) E avevamo falciato un prato che si trovava giù, in fondo al paese. E così, quando erano circa le tre e mezzo del pomeriggio, siamo andate a fare i covoni. Ma, d’improvviso, in un attimo, ci ha raggiunto un vento fortissimo, ed il tempo ha incominciato a dar di matto, e c’erano tuoni, lampi, “e dut un afâr”. Allora ci siamo rifugiate nella casa di Fiorendo, che per poco non ci è caduto addosso anche il portone, spaccato, da tanto vento che c’era. E così ci siamo riparate, io, Lucia di Coleto, e Geremia. Ed anche quando eravamo dentro, è continuato il finimondo, che ha portato via persino le tegole della casa e una parte del tetto. E vedevamo correre i covoni lungo la via. E non è rimasto neppure un covone, neppure uno, tutto è andato perduto.

E per strada c’era un asino che tirava il carretto (la barella a Cavazzo ndr.) pieno di fieno. E quel vento fortissimo, che aveva anche scoperchiato il tetto di Fiorendo, ha ribaltato il carretto e pure l’asino.  A questo punto l’asino ha incominciato “a fâ bocjatas”, a ragliare disperato e spaventato, e ha continuato a ragliare, a lamentarsi forte, perché nessuno andava a vedere di lui, perché non si riusciva a stare in piedi.  E questa povera bestia, legata al carro ribaltato, con le zampe per aria, faceva pietà, ma non abbiamo potuto far nulla per lei. E così l’asino è morto.

Perché, pensate, da noi stava un russo, che si trovava qui essendo finita la guerra del ’14, e che era venuto nel prato dove ci trovavamo ad aiutarci a tirar vicino il fieno. Ma ad un certo punto è arrivato questo vento forte, e si è ribaltato pure lui, e non riusciva più a mettersi in piedi.  Ed è rimasto lì, mentre noi siamo riuscite, come vi ho detto, a ripararci per un pelo, nel portone. E mentre noi eravamo lì, il tetto si è scoperchiato e tutte le tegole si sono spostate in avanti di molto, e gli alberi, sradicati, sono caduti a terra, e poi si vedeva dal balcone della casa, lontano, nella campagna, che si erano storti od erano caduti i pioppi. E abbiamo visto anche due barelle, piene, che giravano da sole, e i covoni erano finiti in cima al paese.

Ed in un attimo tutto è andato all’aria: persone barelle, covoni, fieno, e non è rimasto altro, per chi non era al riparo, che distendersi per terra.  E pazienza per i danni alla campagna, ma ha avuto problemi anche la popolazione che non era riuscita a ripararsi, che era rimasta all’aperto. E quel temporale fortissimo è durato che io mi ricordi, forse un’ora, un’ora e mezzo.

La settimana dopo il fortunale, siamo tornati in campagna, ma al primo tuono, non è rimasta lì un’anima viva!!  Tutti via di corsa, chi in bicicletta, chi a piedi … e tutti a casa. Ma quel giorno non è successo niente».

Laura Matelda Puppini. Cavazzo Carnico anni ’80. Uomo, con la barella attaccata alla bicicletta, va dalla campagna verso il centro del paese. 

Un tempo antico la donna dava del voi all’uomo ma ora non più.

Laura chiede se le donne davano del “voi” al marito.

Mariute: «Ci si dava e ci si dà, fra marito e moglie, del tu. Ai tempi andati si dava del voi, ma i giovani si danno del tu. Ed anche io, da piccola, ho sempre dato del tu ai miei genitori.

Aspetti di famiglia.

Geremia ha studiato, perché era un ragazzo intelligente, ma nel contempo ha sempre lavorato. (Anche mio padre mi raccontava che aiutava suo padre in segheria, quando aveva dieci anni, e che bisognava stare molto attenti. E diceva anche che Ninc e gli altri facevano anche bare, dove, per gioco, lui e un altro, a fine lavoro, andavano a distendersi. Ndr.). E si è mantenuto con i suoi. Adesso aiutano i giovani anche a studiare, ma allora nessuno dava una mano. (Mio padre mi ha raccontato che aiutava anche Mariute in campagna, e poi si arruolò, quando era universitario, come volontario sotto l’Esercito, anticipando di poco la leva, per poter fare la scuola ufficiali). Però lo abbiamo aiutato ad acquistare i libri, questo lo ricordo, e quando è andato a Firenze e qui e là. Ed allora è accaduto che i vicini sono venuti a portarci via tre metri di terreno vicino alla casa. Insomma ci avevano usurpato un bel pezzo di terra vicino alla casa e volevano a tutti i costi metterselo in ditta. E, alla fin fine, ci hanno lasciato un metro sotto la finestra, ed il resto se lo sono preso. Noi prima abitavamo in piazza, e poi siamo venuti ad abitare vicino alla roggia.

E Ninc non ha voluto andare in causa perché i soldi non erano tanti e o faceva causa a chi gli aveva preso la terra, o faceva studiare tuo padre. Ma per lui era importante che Geremia studiasse. Ma devo dire che siamo stati ricompensati, perché lui è sempre stato bravo e ci ha dato tante soddisfazioni, ed è sempre stato tanto buono. Ed ha sempre “tegnut da cont dai bez”, non ha mai dilapidato il denaro. E quando studiava erano momenti anche di paura, (era la seconda guerra mondiale), ma ce l’ha fatta ed è diventato dottore».

Laura poi chiede di zio Geremia e di Barba Nello e degli altri.

Risponde mio padre, Geremia Puppini. Egli racconta che lo zio Nello aveva un cavallo bianco chiamato “Simil”, a cui si era molto affezionato. Egli si fermava davanti all’ osteria e dava da mangiare al cavallo pane e vino. Barba Nello era un bravo intagliatore ed ebanista, ed era andato a lavorare anche in Argentina, e lì lavorava tanto e guadagnava bene ma poi era rientrato. Barba Nello aveva due figlie, che erano abituate, secondo l’uso argentino, a cavalcare nella pampa, libere, e si sentivano un po’ costrette in paese. E queste due ragazzine partivano con il cavallo bianco del padre, e facevano il giro del paese una, due, tre volte.

Ma a casa sua avevano, quando era piccolo, anche un cane, che era considerato il cane più cattivo del paese. E per lui avevano fatto un carrettino. E lo mettevano su questo carrettino a cui legavano anche il cane … E via a zonzo, con il cane che tirava il “biroc”.

Lorenzo Puppini, detto Ninc di Stroc, socialista, falegname.

E Mariuta dice che, quando Geremia era piccolo, quando aveva forse due o tre anni, veniva preso su da una di queste figlie di Barba Nello, di 15 o 16 anni, che lo portava in giro, dappertutto, con un carrettino legato alla bicicletta, e gli faceva fare anche 5 o 6 giri del paese. E lei gli aveva fatto anche un bel vestitino, perché fosse pulito ed in ordine, quando andava fuori.

Laura chiede al padre se quando era piccolo c’era la luce elettrica a Cavazzo Carnico. Geremia risponde: «Quando ero piccolo c’erano ancora i lampioni. E mi ricordo che non avevo ancora 5 anni, perché a 5 anni abbiamo cambiato casa, quando ho visto uno dei primi impianti elettrici lassù di “Agna Catina”. E mi ricordo anche che era venuto, da Agna Catina, Carletto, che aveva cercato di fare le prime proiezioni. Ma però non era riuscito a fare alla perfezione quello che voleva, tanto che, dopo tutto quel lavoro, quando aveva inserito la spina era venuto un corto circuito.

E quella volta c’erano in paese i russi, e c’erano i nazisti.

Mariute: «E c’è stato anche un periodo in cui c’erano i russi, anche a casa nostra, e c’era a Cavazzo tanta di quella gente, venuta da fuori. E gente di qui andava in Friuli a prendere vino per loro. E mettevano sul carro tre o quattro botti, e giunti qui, travasavano il vino nelle damigiane. Poi portavano le damigiane in soffitta, sul “salar”, e per tutta la notte andavano a prendere acqua nella roggia e la portavano su, per allungare il vino, e l’indomani tutti i russi venivano a comperarlo».

Poi mio padre dice che, di fronte al “Cret da Madone”, la gente aveva fatto una specie di bazar dove vendevano di tutto un po’ai russi, solo che Mariute non lo può sapere perché non è mai stata lì, quando c’era. E narra che a Cavazzo “Capelin” e Marino, e tutta la compagnia, per sopravvivere si erano adattati a fare lucido per scarpe per i russi, perché non riuscivano ad acquistarlo per rivenderlo, perché costava troppo. E facevano così: prendevano la fuliggine (il çialin) e la impastavano con altro. Poi cercavano vecchie scatole di lucido di marca e le riempivano di questo preparato, facendolo passare per lucido per scarpe. E i russi lo prendevano perché ci tenevano ad avere gli stivali lucidi. E incominciavano a stenderlo sugli stivali ed a lucidarli. E dai, e dai, … ma gli stivali non pareva diventassero come previsto. Ed allora ci dicevano: «Italianski ni culturni. Abbiamo comperato il vostro lucido per scarpe ma non vale proprio nulla».

Interviene a questo punto mia madre, la dott. Maria Adriana Plozzer, che dice che: «Al bazar trovavi di tutto, magari non di grande qualità, ma di tutto. Perché i cavazzini tutto quello che potevano vendere lo portavano lì, per vedere se riuscivano a ricavare qualcosa. Ed il bazar si trovava in un prato in discesa, quasi di fronte al Cret da Madonna. Ma io ci sono stata una volta sola, con mia cugina Silvia. E mi ricordo che c’era uno che andava in giro, gridando: “Davai, davai, spizki”, “Avanti, avanti, qui fiammiferi!”».

Mariute: «E per Natale, quando c’erano i russi, avevano fatto una bella festa nella latteria. E avevano fatto un albero di Natale tanto alto che toccava il soffitto. E avevano chiamato, anche per un dono, tutti quelli importanti del paese, non quelli poverelli, e quelli che avevano una bottega, una rivendita di qualcosa, che si erano presentati a festeggiare. (A Cavazzo Carnico era già stato imposto un nome russo).
E mi ricordo che Pio era un bambino, e con altri saliva sui cavalli dei russi e saltava la roggia».

Ma secondo Maria Adriana Plozzer c’erano anche ragazzini di Cavazzo che cavalcavano con il permesso dei russi i loro cavalli all’uso cosacco, cioè senza sella, tanto che a Mario di Lino e Mirco erano venute le vesciche sotto il sedere. Perché i bambini di Cavazzo cavalcavano assieme ai bambini russi lungo tutta la campagna fino al Tagliamento, dove portavano i cavalli a bere.
Mariuta: «E avevamo tanti russi a casa nostra, e con loro era sempre osteria, e la casa era sempre piena di gente sbronza. E tuo padre non c’era perché era andato soldato, e Ninc non c’era perché era stato richiamato». Mio padre però precisa che ai tempi dei russi era stato congedato.

Quindi nonna Mariuta ricorda di quando avevano dovuto andare a nascondersi, ai tempi dei partigiani, al tempo dei rastrellamenti nazifascisti, laggiù, sotto le fascine.
Poi, però, Mariute non si ricorda più il discorso, e dice solo che Geremia era ufficiale, e Ninc era soldato semplice, e che, in caserma, se si fossero incontrati, Ninc avrebbe dovuto fare al figlio il saluto militare.

Lorenzo Puppini con due compagni d’arme, verosimilmente durante la prima guerra mondiale. Dopo un perdiodo di combattimenti sul Carso, fu inviato a costruire modelli di aerei per l’aviazione e quindi lavorò per la Mirafiori. Ma poi tornò a Cavazzo per sposare la sua Mariute. 

Ma zio Pio mi aveva raccontato che una volta erano entrati i russi a cercare mio padre, Geremia, temendo si fosse unito ai partigiani, dato che non lo avevano visto nei dintorni. E, con i fucili spianati, avevano messo loro intorno ad un tavolo: lui sua sorella suo padre e sua madre, ed avevano detto che avrebbero aspettato la sera e se mio padre non fosse ritornato, li avrebbero uccisi tutti. Mio padre era fuori paese, ma, avvisato di quanto stava accadendo a casa sua, si precipitò a Cavazzo, e così i cosacchi se ne andarono. Ma Pio ricordava ancora, anni fa, la paura di quella giornata.

Mio padre mi aveva invece narrato che una volta i tedeschi erano venuti con i cani a cercare partigiani. Ed un giovane partigiano si era rifugiato, per non cadere nelle mani del nemico, nel laboratorio di mio nonno. E allora Ninc aveva aperto la botola della segatura, ed aveva fatto nascondere lì il ragazzo, perché i cani non riescono più a sentire l’odore dell’uomo se vi è intorno segatura, e aveva sparso segatura intorno. E così il partigiano si era salvato.

Così termina la prima parte dell’intervista. La seconda parte è relativa a storielle anche familiari divertenti, che però coinvolgono anche altri abitanti del paese, ma non ritengo che debba essere pubblicata.

Laura Matelda Puppini.

La foto che accompagna l’articolo è stata da me scattata, e ritrae nonna Mairute con il “citut dal lat” sulla porta del prefabbricato, sua nuova casa dopo i disastrosi terremoti del 1976. Verosimilmente agosto 1978, forse dopo l’intervista. Laura M Puppini.

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