Ho voluto riportare su www.nonsolocarnia.info questo articolo di Kat Lister su Tina Modotti, giratomi da Mari Domini Toffoletti, perché ella viene vista in modo diverso ed inusuale per noi e per me, che ho già scritto, nel lontano 2015, il mio, su www.nonsolocarnia.info: “Sobre Tina. Due considerazioni personali al margine di un convegno su Tina Modotti.

  L’ articolo è stato pubblicato il 9 agosto 2023 su ‘The Guadian’ ed è leggibile in Inglese su https://www.theguardian.com/artanddesign/2023/aug/09/tina-modotti-the-revolutionary-photographer-who-was-more-than-just-an-it-girl.

Qui di seguito il testo da me tradotto a cui seguirà l’originale in inglese.

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«Un mattino di un giorno alla metà degli anni Novanta, Patricia Albers, studiosa d’arte, e suo marito si recarono in una fattoria in Oregon alla ricerca di indizi che potessero portare Patricia ad una donna che aveva incontrato una decina di anni prima. Il motivo che aveva spinto la nota esperta a cercare quella persona era stata una mostra che celebrava il lavoro fotografico svolto in California dal notissimo fotografo Edward Weston. Mentre visitava le sale espositive, Patricia fu attratta in particolar modo dalle immagini che egli aveva scattato, in Messico nel 1920, alla sua amante italiana e beniamina. Chi era? – si chiese allora la Albers.

Ma la vita e l’opera di Tina Modotti, perché di lei si trattava, non erano così facili da ricostruire. Ci sarebbero voluti anni di indagini perché Patricia riuscisse a trovare i frammenti mancanti che l’avrebbero portata infine a pubblicare, nel 1999, una biografia di Tina.

“La Modotti è vissuta in otto differenti paesi cosicché è risultato difficile incastrare tutti i pezzi della sua vita in un insieme coerente” – aveva detto la Albers, parlando dalla sua casa in California.

Infatti solo nel 1994 aveva scoperto un baule pieno di lettere e fotografie della Modotti in un polveroso attico in Oregon, il che aveva rappresentato una svolta decisiva per il suo lavoro.

E Patricia fu portata pure, dalla sua ricerca, ad accostarsi alla famiglia di origine del primo partner della fotografa friulana, che era stato il poeta americano Roubaix “Robo” de L’Abrie Richéy, ed a giungere ad un involucro polveroso che conteneva bel 100 immagini scattate dalla fotografa italiana, in particolare stampe a contatto di piccolo formato che erano state donate alla famiglia di Robo.

Fu come “frugare nei cassetti della sua scrivania, e sentire un profumo di altri tempi” – disse allora la Alberts, riferendosi a quel materiale giunto tra le sue mani. Così ella ebbe pure un corredo archivistico estremamente utile per terminare la storia di Tina.

Qualcuno potrebbe pure definire la Modotti come una “ragazza dell’avanguardia”, ed ella senza ombra di dubbio guidò il circolo bohemian che si era creato nel 1920 a città del Messico, all’interno del quale si mosse, ma scavando nella sua vita e nel suo lavoro si può scoprire una figura molto più articolata di quella definibile in questo modo. Infatti Tina fu una figura complessa, fu un’artista socialmente consapevole, un’attivista la cui produzione, sebbene interrotta all’età di 45 anni, fu plasmata da alcuni fra i più significativi eventi storici dell’inizio del XX secolo.

Inoltre si può notare una complicità fra lei, fotografa, e i soggetti che ritraeva, e questo era reso possibile dal fatto che essi facevano parte del suo lavoro e chiunque lo vedesse poteva percepire quel rapporto. Questo disse Patricia Alberts, guardando ammirata una fotografia di Tina, scattata in Messico nel 1927, ed è una immagine fra le meno note dell’artista, che ora si trova al ‘San Francisco Museum of Modern Art (SFMoma)’. Essa ritrae due mani rugose e segnate dalle intemperie, che stringono due ginocchia rannicchiate mentre il nostro sguardo si sposta verso il basso, verso i sandali malconci dell’uomo anziano.

La Albers, poi, dice di amare particolarmente le immagini scattate da Tina che ritraggono oggetti da lavoro: una mano che tiene una vanga, un pescatore che sta lanciando una rete, un panettiere con un paniere sul capo. E quei sandali ritratti ai piedi dell’uomo, sono essi stessi degli strumenti di lavoro perché sono qualcosa di necessario per guadagnarsi da vivere.

L’immagine dell’uomo dalle mani rugose e dai sandali logorati da tempo ed usura, tanto amata da Patricia, è solo una delle circa 250 fotografie che compongono la nuova retrospettiva su Tina Modotti presso la Fundación Mapfre di Barcellona, che rappresenta la mostra più ampia fino ad oggi realizzata sull’artista. La curatrice della stessa, Isabel Tejeda Martín, spera che detta esposizione possa finalmente cancellare l’idea di Tina vista solo come una figura iconica di musa super – erotica. Inoltre la Martín si è posta l’obiettivo di allontanarsi dal modello, diffuso, della Modotti come soggetto passivo, e di riportarla alla attenzione del pubblico come cittadina attiva, perché questo ella fu.

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L’esposizione è stata allestita – ha precisato sempre la curatrice – seguendo un approccio biografico della nota fotografa, perché è l’unico possibile se si vuol comprendere davvero la Modotti.

Nata ad Udine, nel nord est dell’Italia, in una famiglia di lavoratori, Tina Modotti emigrò in Usa nel 1913. Prima visse a San Francesco, fino all’età di 16 anni, quindi si spostò a Los Angeles quando ne aveva appena compiuti 20. Qui ella divenne attrice di film allora muti e modella per Edward Weston. E l’inclusione del lavoro di Weston nella mostra di Barcellona è importante proprio per cogliere le differenze nel loro modo di inquadrare, di vivere la foto. 

Nel 1923, Tina e Weston si spostarono a città del Messico, dove ella seguì gli insegnamenti di Weston nella fotografia. Ma questo ‘dettaglio biografico’ comportò che, spesso, essa fosse relegata unicamente nel ruolo di apprendista del grande fotografo, senza mai riuscire a liberarsi da questo ruolo e dalla scuola del maestro. Tejeda Martín, invece, ha deciso di modificare questa narrativa, grazie ad un nuovo modo di leggere la produzione di Tina, condiviso pure da Erin O’Toole, curatrice della fotografia presso il San Francisco Museum of Modern Art (SFMoma).

“Ho visto spesso – ha detto la Martin – che le persone tendono ad appianare le differenze e spesso questo deriva sa un sentire che risente di fattori legati all’appartenenza di genere, cosa a cui io naturalmente mi oppongo”. Senza ombra di dubbio la Modotti ha appreso molto dal suo maestro Weston, ma poi la sua influenza su Tina iniziò a prendere un andamento altalenante, e se, quando giunsero in Messico, era difficile a volte distinguere una foto di Tina da una di Weston, poi non fu più così.  

Modotti era però una ottima allieva ed imparò velocemente a fotografare dal suo maestro, ed un anno dopo il suo arrivo nella capitale messicana, divenne la fotografa ufficiale dei muralisti, su espresso invito del più grande fra loro, Diego Rivera. E Tina scattò centinaia di fotografie al progetto di affresco su larga scala, il primo di quel genere, del noto pittore, realizzato per il Segretariato dell’Educazione Pubblica.  

Inizialmente la Modotti appare incerta nel suo approccio personale alla fotografia, e solo quando incominciò a crescere politicamente, riuscì a staccarsi da Weston. Infatti, secondo Patricia Albers, il suo modo di fotografare cambiò radicalmente solo quando aderì al Partito Comunista messicano. Ed una delle sue immagini più apprezzate, intitolata “sfilata di lavoratori”, che ritrae una marea geometrica di cappelli a tesa larga, fu scattata durante una manifestazione del primo maggio 1926, ed è certo che Weston non avrebbe mai fotografato un soggetto di questo tipo. Ed è grazie alla fusione fra il rigore artistico e la passione politica, che nacque il modo particolare di fotografare di Tina.

Quindi, stimolata in ciò anche dalle sue radici familiari operaie, Modotti si allontanò dal modernismo formalista che aveva appreso, e si calò nella realtà sociale che la circondava, osservandola, ritraendola: un bimbo lavoratore nel momento di pausa per il pranzo; una donna che sta portando della legna, un uomo che trasporta una balla di fieno. “Io cerco non di produrre con le mie foto arte, ma di fare un onesto lavoro di riproduzione della realtà” – così diceva Tina mentre scattava.

La curatrice della mostra di Barcellona, Tejeda Martín, chiama questo approccio di Tina, questa sua fotografia partecipata, “un’empatia verso ciò che ella vede intorno a sé”, che è poi la chiave per comprendere le sue immagini.

Per esempio Tina aveva fotografato un ragazzo mentre defecava in una via, immagine databile tra il 1926 ed il 1929, il che comporta immediatamente un problema di dignità della persona. Ma Tina non poteva dimenticare, in questo caso, scattando questa foto, che anche lei era stata una bambina lavoratrice e che è difficile vivere in un mondo come quello, sfruttati dal Capitalismo. E si potrebbe dire che la Modotti stia, nelle sue foto, al di qua ed al di là della macchina fotografica, perché è al tempo stesso punto di vista in quanto fotografa e fine in un certo senso della foto stessa, in quanto la vive, in quanto simpatizza con il soggetto.

Il suo obiettivo ha anche catturato in modo completo e radicale l’esperienza femminile, e le immagini delle donne indigene del Messico ci mostrano in che modo. Nelle strade polverose di Oaxaca “qualsiasi cosa è portata sul capo dalle donne fino a Tehuantepec”, e lo sguardo fisso e privo di emozioni di una lavoratrice si accorda con il nostro percepire il carico pesante che ella porta.

Sempre nel 1929, la Modotti puntò il suo obiettivo su quanto la teorica del film femminista Laura Murvey avrebbe poi definito “il lavoro materno”, fissandolo in una serie di immagini che documentano, simultaneamente, l’intimità e la fatica dell’allattamento al seno. Ma Tejeda Martín vive queste immagini come quelle di donne che “producono la nuova generazione di lavoratori”. E “quando Modotti fotografa le donne indigene – scrive la curatrice nel testo che accompagna la mostra – la sua visione rivendica il femminile da una prospettiva lavorativa e sociale”.

E non vi è dubbio che questo è stato il motivo per cui la sua riscoperta è coincisa con la seconda ondata di femminismo che ha preso piede nel 1970. Infatti dopo la sua morte, avvenuta in Messico da apolide, il lavoro di fotografa di Tina Modotti venne dimenticato e molti suoi negativi andarono dispersi o perduti.

Ci sarebbe voluto l’impegno di Riccardo Toffoletti, un fotografo udinese, perché le cose cambiassero. Nel 1973, recuperò ed espose 30 stampe d’epoca nella città natale della fotografa. Il Moma SI New York rispose cinque anni dopo con una piccola retrospettiva delle sue opere. Poi, all’inizio degli anni Ottanta, una mostra pionieristica curata da Mulvey e Peter Wollen, alla Whitechapel Gallery di Londra, porterà Modotti a confrontarsi con un’altra artista, donna, trascurata, sua amica e compagna, l’ormai esotizzata e mercificata Frida Kahlo.

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Qualcuno si potrebbe domandare: perché la Modotti è stata dimenticata per tanto tempo? “Non sono disposta ad accettare l’idea che la ragione principale per cui è scomparsa sia perché era comunista” – sostiene Erin O’Toole, curatrice della fotografia presso il SFMoma – “Certo, era comunista e negli Stati Uniti negli anni dopo la sua morte, c’è stata molta paura del comunismo, ma la sua storia è più complicata. Ci sono, a mio avviso, aspetti di misoginia, nel senso che le fotografe donne sono meno interessanti dei maschi.

Dopo un periodo magico, durato 8 anni, in cui Tina Modotti fotografò, ella fu espulsa dal Messico nel 1930, a seguito della morte di Julio Antonio Mella, un rivoluzionario cubano, che era stato ucciso mentre rientrava a casa a braccetto con Tina. Così ella fu arrestata con il sospetto di omicidio prima che ne venisse chiarita l’estraneità (1).  Ma fu esiliata comunque. Successivamente Tina abbandonò la fotografia, anche se non siamo sicuri se questo avvenne in via definitiva.

Prendendo però in considerazione i suoi successivi spostamenti: da Berlino a Mosca e quindi in Spagna, dove svolse una serie di attività politiche e umanitarie durante la guerra civile spagnola, forse una cosa sembra chiara, anche se risulta di difficile definizione. Possiamo ritenere – sostiene Erin O’ Toole – la Modotti, per certi versi, americana, anche se è evidente che visse ben poco negli Usa, tanto da poterla definire una fotografa americana?”

Molte supposizioni si susseguirono anche relativamente alla sua morte. Era stato davvero un infarto, avvenuto all’ interno di un taxi, sui sedili dietro il guidatore, a ucciderla o aveva ragione Rivera quando ipotizzava che si trattasse di un omicidio politico? La causa della sua morte resta ancora un quesito aperto. Ed infine, afferma O’ Toole: “Le persone continuano a essere interessate al suo lavoro fotografico più o meno allo stesso modo che per le opere della Kahlo”, perché, come pure per Frida Kahlo: “La loro non usuale storia personale mantiene viva la loro opera”.

Le fotografie di Tina Modotti sono attualmente esposte presso la Fondazione Mapfre a Barcellona fino al 3 settembre 2023».

Kat Lister. 9 agosto 2023, in: ‘The Guardian’.

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Schermata di immagini di Tina Modotti e che la ritraggono da: https://www.reflex-mania.com/tina-modotti/. (Non ho trovato veti alla pubblicazione, se ve ne fossero siete pregati di avvisarmi che tolgo subito il collage di immagini).

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Testo originale in inglese.

«‘She’s hard to pin down’: the ‘avant-garde It girl’ who became a revolutionary photographer.

Kat Lister – Wed 9 Aug 2023 15.10 BST.

Tina Modotti moved in the same circles as Diego Rivera and Frida Kahlo but, until now, little was known of the artist and activist whose work was galvanised by her politics.

One morning in the mid-90s, the art historian Patricia Albers and her husband drove out to a farm in Oregon, looking for clues that would bring her closer to a woman she had encountered a decade before. She had been perusing an exhibition celebrating the work of California photographer Edward Weston, yet, wandering through the gallery space, it was the photographs of his Italian lover and protege, taken in Mexico in the 1920s, that especially piqued her interest. Who was she, Albers wondered? However, Tina Modotti wasn’t so easy to find. It would take years of detective work for Albers to locate the missing fragments that would bring her subsequent biography, which was published in 1999, to life.

“Modotti lived in eight different countries so it’s hard to fit all the pieces together into a coherent whole,” Albers says from her home in California. That is why her discovery in 1994 of a trunkful of Modotti’s letters and photographs, in a dusty attic in Oregon, was such a pivotal moment. While researching her book, Albers’ sleuthing led her to the family of Modotti’s first partner, the American poet Roubaix “Robo” de L’Abrie Richéy, and to a musty trove that contained more than 100 images by the Italian photographer, mostly small contact prints that had been gifts to Robo’s family. “It was like going through her desk drawers, it had an aroma of the past,” Albers recalls. It also gave her the archival material she needed to finally tell her story.

Some may still regard Modotti as the “It girl of the avant garde”, undoubtedly guided by the bohemian circle of 1920s Mexico City in which she moved, but delve into her life and work and you will uncover a far more complex figure; a socially conscious artist and activist whose output, although cut short at the age of 45, was shaped by some of the most significant historical events of the early 20th century.

“There is a complicity with her subjects because she is working with them and you sense that rapport,” Albers says , looking at a photograph Modotti took in Mexico in 1927 – one of the many “forgotten” images that now reside at the San Francisco Museum of Modern Art (SFMoma). A pair of weather-beaten hands clasp two huddled knees as our gaze travels downward to the elderly man’s battered sandals. Albers is particularly drawn to Modotti’s photographs of working tools, she tells me: a hand on a spade, a fisher throwing a net, the baker boy with a basket on his head. “Those sandals are like tools in themselves,” she muses. “It’s what one needs to make a living.”

This striking image is just one of the nearly 250 that makes up a new retrospective of Modotti’s photography at Barcelona’s Fundación Mapfre, the most extensive exhibition to date, and one that its curator Isabel Tejeda Martín hopes will “break from the iconic figure of the hypersexualised muse”. In other words, moving further away from the “passive model” she was often perceived to be and turning closer towards the “active citizen” she actually was.

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The exhibition takes a biographical approach because “it is unavoidable if you want to understand Modotti,” Tejeda Martín says. Born into a working-class family in Udine, in north-east Italy, Modotti emigrated to the US in 1913: first to San Francisco when she was 16, then to Los Angeles in her early 20s, where she became a silent movie actor and modelled for Weston. The inclusion of Weston’s work in this exhibition is important, Tejeda Martín says, “to highlight the differences in their gaze”.

In 1923, she and Weston moved to Mexico City, where Modotti followed Weston’s lead, a biographical detail that often relegates her to “an apprentice” who never broke free from his schooling. Tejeda Martín is determined to change this narrative, a re-examination that is shared by SFMoma’s head of photography Erin O’Toole. “I find that people oversimplify the differences and often it feels very gendered, which I naturally resist,” she says. “Clearly Modotti learned a lot from him, but the influence went back and forth.” So much so that when it comes to their early photography in Mexico, it has sometimes been hard to tell them apart.

Modotti learned quickly. A year after her arrival in the Mexican capital, she became the “official” photographer of the muralists – at the express invitation of its titan, Diego Rivera – taking hundreds of pictures of his first large-scale fresco project at the Secretariat of Public Education. Initially tentative in her approach, it wasn’t until Modotti’s politics deepened that her path peeled away from Weston’s. The pivot, for Albers, occurred in 1927 when she officially joined the Mexican Communist party and “her whole attitude towards photography changed”. One of her most acclaimed pictures, Workers Parade – a geometric sea of wide-brimmed hats – was taken during a May Day demonstration in 1926. “Weston would never do Workers Parade,” Albers says. That’s where the fusion began, mixing “artistic rigour with political power”.

Galvanised by her working-class roots, Modotti moved away from the formalist modernism she had learned, and homed in on the social realities she was observing around her: a child labourer on his lunch break, a woman carrying wood, a man hauling a bale of hay. “I try to produce not art but honest photographs,” Modotti said at the time she was taking them. Tejeda Martín calls it “embodied” photography: “Empathy, for her, is the key concept, it’s in everything she sees.” For instance, a boy defecating in the street (1926-29) brings in questions of dignity: “She cannot forget that she was also a child worker and that it is difficult being in a world like that, exploited by capitalism.” In this sense, she is present on both sides of the camera, because she is equally “the point of view and the scope.”

Her gaze also radically captured the female experience and her photographs of the Indigenous women of Mexico show us how. In the dusty streets of Oaxaca, “everything is carried on the head by the women in Tehuantepec” as a worker’s impassive gaze matches ours under her heavy load. The same year, in 1929, Modotti focused her lens on what the feminist film theorist Laura Mulvey later called “the labour of mothering” in a series of images that document the simultaneous intimacy and exertion of breastfeeding. “Women producing the next generation of workers,” as Tejeda Martín calls it.

“When Modotti photographed Indigenous women,” Tejeda Martín writes in the exhibition’s accompanying text, “her vision vindicated the feminine from a labour and social perspective.” No doubt this is why her subsequent revival occurred alongside the second wave of feminist theory in the 1970s. After she died stateless in Mexico, in 1942, Modotti’s work became largely forgotten, her negatives so scattered that many were lost. It would take the efforts of Riccardo Toffoletti, a fellow Udinese photographer, for things to change. In 1973, he recovered and exhibited 30 vintage prints in her home town. Moma responded five years later with a small installation of her work. Then, in the early 1980s, a pioneering exhibition curated by Mulvey and Peter Wollen, at the Whitechapel Gallery in London, would bring Modotti face-to-face with another neglected female artist, her friend and comrade, the now exoticised and commodified Frida Kahlo.

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So why, then, did Modotti disappear for so long? “I’m loth to go along with the idea that the key reason she fell off the map was because she was a communist,” O’Toole says. “Sure, she was a communist, and in the US after her death there was a lot of fearmongering around communism” – but her story is more complicated than that, she argues. “There are aspects of misogyny there, in that female photographers are less interesting to people.”

After a short spell of only eight years taking photographs, Modotti was expelled from Mexico in 1930 after Julio Antonio Mella, a Cuban revolutionary, was assassinated as he walked home with Modotti by his side (Modotti was arrested before being cleared of the murder). She subsequently gave up photography, although questions linger as to whether this is irrefutably the case. Taking into her consideration her subsequent movements from Berlin, to Moscow, and finally Spain – where she took on a range of political and humanitarian work during the Spanish civil war – perhaps one thing is clear. “She’s hard to pin down,” O’Toole says. “She became an American as far as I can understand, but she spent very little of her life in the US, so is she an American photographer?”

Additionally, there are the rumours about her untimely death. Was it heart failure in the back of a taxi or was Rivera right in suggesting that it was a politically motivated crime? And so the question marks in this extraordinary woman’s story remain. “People continue to be interested in her work in much the same way as Kahlo,” O’Toole says. Because like Kahlo: “Her story keeps the work alive.”

Tina Modotti is at the Fundación Mapfre, Barcelona, until 3 September».

https://www.theguardian.com/artanddesign/2023/aug/09/tina-modotti-the-revolutionary-photographer-who-was-more-than-just-an-it-girl.

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Io mi fermo qui, ricordandovi ancora che su www.nonsolocarnia.info potete trovare, su Tina Modotti, i seguienti articoli, di cui i primi due sono miei:

Sobre Tina. Due considerazioni personali al margine di un convegno su Tina Modotti.

Le immagini e la storia di Tina Modotti nella più completa esposizione a lei dedicata, a Barcellona, grazie alla Fondazione Mapfre.

FRANCESCO CECCHINI. TINA MODOTTI, UNA DONNA INFINITA.

Tina Modotti: sinora pochi misteri nel paginone di Alias di Marco Puppini.

Se trovate qualche errore di traduzione, che però non è letterale, scusatemi ed avvisatemi. Un sentito grazie a Marì Domini Toffoletti, presidentessa del Comitato Tina Modotti.

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Nota (1). Qui ho capito così, traducendo. Ma nel mio “Sobre Tina. Due considerazioni personali al margine di un convegno su Tina Modotti” scrivevo però che Tina fu incarcerata e quindi allontanata dal Messico in quanto sospettata di aver collaborato ad un attentato contro il nuovo capo dello Stato messicano, Pasqual Ortiz Rubio. Ma non bisogna dimenticare che, nel febbraio 1930, il Partito Comunista messicano era stato messo fuorilegge, e la stampa iniziò una campagna contro Tina Modotti, diffamandola.

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L’immagine che accompagna l’articolo è una immagine realizzata dalla Modotti nel 1929 a Città del Messico intitolata”Le mani del burattinaio” ed è oggi conservata al Minneapolis Institute of Art negli USA. (https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Modotti_HandsOfThePuppeteer_MIA_8587.jpg). L.M.P.

https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2023/09/Modotti_HandsOfThePuppeteer_MIA_8587-scaled.jpg?fit=820%2C1024&ssl=1https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2023/09/Modotti_HandsOfThePuppeteer_MIA_8587-scaled.jpg?resize=150%2C150&ssl=1Laura Matelda PuppiniARTE E FOTOGRAFIASTORIAHo voluto riportare su www.nonsolocarnia.info questo articolo di Kat Lister su Tina Modotti, giratomi da Mari Domini Toffoletti, perché ella viene vista in modo diverso ed inusuale per noi e per me, che ho già scritto, nel lontano 2015, il mio, su www.nonsolocarnia.info: “Sobre Tina. Due considerazioni personali al...INFO DALLA CARNIA E DINTORNI