Sto ritornando ad Ha Noi da Dien Bien Phu. Prendendo l’aereo ascolto da un altoparlante l’inno che i combattenti del Viet Minh cantavano nel lontano maggio del 1954.
Un ragazzo lo traduce ed io annoto quattro versi in un quadernetto:

«… Oh che felicità il giorno che venimmo a nord ovest!
I nostri compatrioti sono entusiasti e con felicità salutano il ritorno.
Colline e fiumi sono splendenti; la nostra nazione è raggiante.
Sopra i campi di Dien Bien Phu, le rosse bandiere della vittoria
illuminano il cielo».

Il nome originale “Muong Tenh”, nella lingua dell’etnia locale, significa Città del Cielo. Dien Bien Phu, il nome vietnamita, suona alle mie orecchie esotico, ma vuol dire piu o meno Capoluogo Amministrativo di Confine: Dien Bien, Phu.

Phu si trova nel Viet Nam del Nord, a pochi chilometri dal confine con il Laos, e non molto lontano dalla Cina. La città è una pianura di risaie, attraversata dal fiume Nam Yuma, e circondata da colline e montagne verdi. A poca distanza c’è un lago. Ho visitato il campo di battaglia con le varie postazioni fortificate tutte con nomi di donna: Gabrielle, Natacha, Dominique… .Vi è anche un museo, a Phu, dove  immagini, disegni, parole,  raccontano la battaglia che uccise il colonialismo francese. E vi è il cimitero dei soldati Viet Minh, a Puh, ove si trovano, pure, un vecchio carro armato francese ed  un cannone. Dalla città una scalinata porta alla cima di una collina, dove un monumento ricorda la vittoria. Per i caduti francesi non c’è un cimitero, ma una stele, in un giardino,  li ricorda.

Se e vero che Bigeard, il torturatore del popolo algerino, volle che le sue ceneri venissero sparse dove fu sconfitto, molti sperano che queste siano finite in qualche fogna a cielo aperto. Lo penso anch’io.
Ho visitato anche il dog ‘s market dove credevo, ingenuo, di trovare cani vietnamiti che abbaiavano, non pezzi di carne da bollire od arrostire.

Ad Hanoi, per la festa del Tet… il capodanno lunisolare vietnamita.

Ad Hanoi piove una pioggia fine e vi è una intensa nebbia, che ricordano ai francesi il crachin della Normandia o della Bretagna e a me la garua di Lima. Ma la città non appare grigia: vi è il verde dei parchi e dei viali alberati, vi sono laghi chiari, vi sono le mantelline di plastica multicolori che proteggono le persone da quello stillicidio d’acqua.
Questo clima dona bellezza alla città. Hanoi, al di là del fiume, quello rosso, è sempre stata un simbolo.
Lo era ancor prima dell’impero, prima della dinastia Le, quando si chiamava Tha Long la città del dragone; lo era al tempo del dominio coloniale francese quando divenne Tonkino;  lo è stata quando si trasformò nel simbolo della lotta contro l’imperialismo americano. Ora è la capitale del Viet Nam, dove coesistono architetture millenarie, accanto a costruzioni coloniali e grattacieli.

Ho deciso di trascorrere il Tet, il capodanno lunisolare vietnamita, del 1998 al nord.
E’ l’anno della tigre. Non cade sempre nello stesso giorno il Tet, segue il ciclo della natura, il calendario astrologico. Per alcuni giorni il lavoro viene sospeso: i vietnamiti trascorrono la festa in famiglia, recandosi pure a far visita ad amici e parenti; gli stranieri, invece, colgono l’occasione per dedicarsi al turismo.

Sono in fila di fronte al mausoleo di Ho Chi Minh, che si trova in piazza Ba Dinh dove il padre della patria lesse la dichiarazione d’indipendenza il 9 settembre 1945. Il Mausoleo si trova vicino al più grande lago della città, Ho Thay, il lago dell’Ovest, il Grande Lago. In questa mattinata, umida come tante altre, il monumento è avvolto dall’acqua e dalla nebbia, che però non riescono ad alleggerirne la pesante struttura sovietica, ispirata dal mausoleo di Lenin a Mosca. Anzi quella nebbia pare accentuare ancor di più il suo aspetto funerario, ed il grigio marmo di Da Nang, con cui è stato costruito, appare ancor più grigio.
Narrano che Ho Chi Minh avesse chiesto, dopo la sua morte, di essere cremato e che le sue ceneri, fossero poste in tre urne funerarie, da interrare sulle cime di tre colline del Viet Nam, una al nord, una al centro ed una al sud, a simbolizzare l’ unificazione del paese. Ma la sua volontà non venne rispettata dal partito. Così il suo corpo, al pari di quello di Lenin, è finito imbalsamato, da esperti russi, che hanno compiuto il loro lavoro all’interno di una caverna per sfuggire ai bombardamenti. Non cenere dispersa, ma mummia da conservare con periodiche manutenzioni, e da offrire agli occhi dei turisti.

La fila di coloro che desiderano visitare il mausoleo, fatta di vietnamiti e stranieri, è lunga e così incomincio a pensare se l’attesa valga la pena o meno, se entrare o no.
Sono indeciso, temo che la vista del corpo imbalsamato di Ho Ci Minh rovini l’immagine che ho di lui, ritratto, in una fotografia, assieme al generale Giap mentre studiano una mappa.
Inoltre, secondo me, non entrando, si onora il suo vero testamento.

Alla ricerca di un nuovo alloggio a Sai Gon.

Sto per abbandonare la fila quando suona il cellulare. È Nga.
«Devi ritornare immediatamente a Sai Gon. La padrona vuole interrompere l’affitto dell’ ufficio e dell’abitazione». Nel contratto, scaduto da un paio di giorni, in effetti non c’è nulla che indichi la possibilità di un rinnovo. Madame ci lascia un paio di giorni dopo la fine del Tet. Poi dobbiamo sgomberare.

Ho casa ed ufficio sul confine tra Sai Gon e Cho Lon, vicino all’Equatorial Hotel e di fronte alla Chiesa di San Francesco Saverio. E subito giunge una prima difficoltà per rientrare. Non riesco ad anticipare il volo Hanoi Sai Gon, prenotato per la fine del Tet. Vietnam Airlines è intasata. L’agenzia viaggi mi trova un sedile in un bus che va da Ha Noi a Da Nang, e parte quasi subito, poi un volo per Ho Chi Min City.

Durante il viaggio non guardo il Viet Nam né lungo la costa nè dall’alto, ma penso ai giorni che mi attendono, non certo piacevoli, o dormo.
Nga è ad attendermi all’areoporto e mi informa che forse ha trovato un altro alloggio, il che mi dà un po’ di sollievo.

Il cielo di Sai Gon è senza nuvole, limpido, e fa caldo, fa davvero caldo. Attraversiamo in taxi la città in festa. Vedo dal finestrino Ngyuen Huè ove c’ è il mercato dei fiori: vi sono tante piante e tanti fiori, in particolare gialli, di pruno.
Scendiamo dal taxi in pieno centro e ci fermiamo agli uffici di “Expat Service”, un’ impresa gestita da Caroline e Marc, due franco-vietnamiti, che si occupa dei problemi locativi degli espatriati a Saigon.
L’ufficio è stato aperto solo per me. Mi accoglie Caroline, la direttrice, che mi dice subito che ha trovato qualcosa per me: un edificio di quatto piani, stretto ed alto, con due stanze per piano: senza mobili.
Andiamo subito dove si trova, in Die Bien Phu street, quasi all’ incrocio con Hai Ba Trung, la strada che porta al giardino zoologico ed all’orto botanico. L’edificio mi piace, non ho voglia di perdere tempo in ulteriori ricerche, e definisco le condizioni del contratto, con attenzione alla clausola di rinnovo, per non trovarmi un’altra volta sulla strada.
Nel prezzo è compresa anche l’organizzazione dei locali in base al Feng Shui, l’antichissima arte geomantica taoista.

L’incontro con Chin ed il Feng Shui.

So poco di Feng Shui.  Sarà bello vedere Vento ed Acqua in azione con me e su di me.
Per organizzare i locali secondo le antiche regole del Feng Shui, Caroline mi propone di andare subito a Cho Lon, dove vive il geomante che lavora per l’ “Expat Service”, che, per arredare, deve conoscere chi vivrà nell’ edificio e parlargli.

Ho vissuto al confine tra la città vietnamita e quella cinese, ma l’ho attraversato solo un paio di volte, senza addentrarmi, senza afferrare la differenza tra le due città.
  È sera, ed il viale che porta a Cho Lon è un fiume di motociclette e di automobili. La colonna sonora che ci accompagna è il suono frastornante e continuo dei claxons. Il cuore di Cho Lon è un labirinto illuminato. Chin, il geomante che ci attende, abita in una viuzza affollata dai cinesi. Al piano terra c’è un negozio di oggetti colorati rosso ed oro; sopra vi sono il suo ufficio ed una camera da letto.

Anche Chin è cinese, e mi saluta con un leggero inchino a mani giunte.
Anch’io rispondo con un inchino, che Caroline mi sussurra avrebbe dovuto essere leggermente più curvo. Mi bisbiglia, pure, che avrei dovuto salutare per primo, ma sarà per la prossima volta.
Lei non viene salutata e non saluta.
Ci sediamo attorno ad un tavolo dove ci sono tre tazzine, una teiera con del tè, un dolce.
Chin parla uno strano linguaggio, mischiando cinese e vietnamita. Caroline versa il tè e traduce il vietnamita mescolando inglese e francese.
« Dove sei nato, quando, in che giorno, a che ora?» – mi chiede. Non ricordo il giorno della settimana e l’ora. Forse non l’ho mai saputo. «Sei un cane di fuoco, cerca di sapere appena puoi il giorno e l’ora della tua venuta al mondo» – prosegue. 

Senza questi dati egli non può studiare il mio arredo personalizzato.

Io e Caroline ci fermiamo all’ Arc in Ciel a bere un Calvados ed ella mi narra …

Ritornando ci fermiamo all’ “Arc en ciel”, e ci portiamo sulla terrazza. Ho fretta di sapere quanto Chin mi ha richiesto. I miei sono morti. Telefono ad una zia che era presente alla mia nascita, a Roma, avvenuta in un appartamento dei Parioli. Vengo a sapere che sono nato un venerdì alle due del pomeriggio, e che, pochi giorni dopo, seguendo il volere della mia ava materna, sono stato battezzato nella chiesa di San Bellarmino.

«Mangiamo o beviamo qualcosa?» – mi chiede Caroline, ma io non ho fame. Così Caroline ordina alla cameriera due bicchieri di calvados con ghiaccio ed una fettina di mela verde.

«Mi piace il calvados più del cognac ed ho imparato la sua composizione leggendo uno scrittore italiano» – mi sussurra Caroline. Sua sorella abita a Roma, ed io conosco lo scrittore.
Il calvados arriva con ghiaccio, ma senza la fettina di mela. Caroline non protesta. A me va bene così.

Mentre beviamo guardiamo dall’alto uno scorcio di Cho Lon. In cielo la luna è piena, è bianca.
Cho Lon non è più quella che hanno descritto Gontran de Poncins in “Une ville chinoise” e Jean Hugron in “Morte en fraude”. Allora era una città della notte e dei piaceri, segnata da “l’Arc en ciel”, ma anche da “Le Grand Monde”, “Le Palais de Jade” e da molte fumerie d’oppio.
La pipe venivano caricate d’oppio da ragazze che poi si stendevano accanto ed accarezzavano.

Mentre sorseggiamo il calvados, Caroline mi racconta della sua adolescenza a Sai Gon: il tennis a le Cercle Deportif, le difficoltà incontrate per non essere né francese né vietnamita.
Suo padre era un legionario tedesco, forse un ex nazi, venuto in Viet Nam a combattere con i francesi contro il Viet Minh. Aveva conosciuto sua madre nel sud del Viet Nam, a Ca Mau, ma lei era nata a Sai Gon, dove aveva vissuto e studiato fino ad un mese prima che i viet cong prendessero la città. Allora, aveva 15 anni. Poi il nucleo familiare si era trasferito a Parigi, ma dopo gli studi ed un po’ di lavoro, Caroline era ritornata in Viet Nam. «Il Viet Nam è il mio paese» – aggiunge. Non parlo, ascolto.

In attesa di quel sopralluogo di Chin  …

Il giorno dopo Caroline, molto presto, va a prendere Chin e ci troviamo in Die Bien Phu, di fronte all’edificio. Con noi c’è anche Nga. Riferisco a Chin l’ora ed il giorno della mia nascita, ed egli lo scrive su di un pezzo di carta. Caroline apre il portone, Chin entra, armato di una bussola geomantica. Mentre compie le sue rilevazioni, non vuole nessuno accanto a sé.
Aspettiamo Chin seduti in piccoli sgabelli di ristoranti, che si differenziano da quelli da marciapiede.
Facciamo colazione con tre “pho bo” e del tè. A Caroline racconto il mio impegno in Italia a sostegno dei vietcong e dell’ esercito del nord. La parola d’ordine del gruppo nel quale militavo non era “pace in Viet Nam!” ma “Viet Nam rosso!”
Un autunno di 31 anni fa bruciai la bandiera a stelle e a strisce di fronte all’ ambasciata americana in Via Veneto, a Roma. – narro a Caroline.
«Quando ero giovane i viet cong mi terrorizzavano» – dice Caroline – ma poi ho cambiato idea». Ora simpatizza, dal suo racconto, con chi ha liberato il paese. Di My Lai ed altre tragedie non sapeva nulla, finchè non ha raggiunto la Francia.
Nga, la mia assistente, è invece una vietnamita del nord del paese, e suo padre è un comunista “duro”, arrivato qui con l’esercito del nord. Nga sta cercando marito, magari americano. Il suo sogno è abbandonare il Viet Nam ed andare negli States a “vivere bene”.
Il parco si svuota, la gente ritorna a casa o va lavorare. Il traffico aumenta sia in Dien Bien Phu che in Hai Ba Trung. Stare all’aperto significa, qui, nella città, respirare fumo di scarico, ma l’interno del ristorantino è affollatissimo.
Chin ritorna dopo un paio d’ore, si siede, ed ordina un’insalata di papaia. Fa caldo a Saigon, fa davvero caldo. Chin mangia, beve del te, parla. «Ti scriverò con calma l’oroscopo, ma puoi abitare e lavorare nell’edificio» – annuncia.

Ho già passeggiato per il parco Le Van Tam, accanto al quale si trova il mio futuro alloggio, una volta cimitero francese. Tutti i corpi sono stati inviati in Francia o cremati. Anche la terra del cimitero è stata rimossa. Ne hanno portata di nuova per il parco, dalle rive del fiume. Non vi sono influenze negative, sono state rimosse, cancellate.
«Il tuo studio e la sua camera da letto devono dare sul parco. Arreda con mobili chiari, è preferibile che la scrivania sia bianca. – mi suggerisce Chin – Metti piante verdi e fiori di qualsiasi colore, ovunque. Ma la cosa pi ù importante è acqua che scorre. Al piano terreno dopo l’entrata vi è una fontana. Mettila in funzione – mi dice- ma in ogni piano ci dovrebbe essere acqua che fluisce.»
Ci alziamo ci salutiamo con un leggero inchino a mani giunte, io per primo e leggermente piu piegato, come vuole il protocollo locale. Caroline e Nga mi guardano e annuiscono.
Chin e Caroline ritornano a Cho Lon, io e Nga entriamo nei nuovi uffici.
Seguo tutte le istruzioni di Chin, per l’arredamento. Svendo i vecchi mobili dell’ufficio e ne compro di nuovi, importati da Singapore, di color chiaro, e riprendo vita e lavoro nel nuovo alloggio.

Ho già passeggiato per il parco Le Van Tam …ed imparo lì a giocare a badminton …

La vita in Dien Bien Phu street è piacevole, il centro di Sai Gon, con i suoi ristoranti e locali, con l’ Opera, il “Sai Gon bar” ed il “Continental Hotel”, vicino.
Inizio ad abituarmi ad aprire la giornata giocando a “badminton”, una specie di tennis con volano, nel parco. Dapprima mi unisco a giocatori casuali come me, che giocano in mezzo alla gente che passeggia, poi, con il passare del tempo, vengo invitato a giocare partite regolari sui campi segnati e dotati di reti.
Non posso competere con l’agilità dei vietnamiti, ma giocare mi aiuta a scaricare l’aggressività. In genere perdo, ma mi rispettano comunque. Durante il giorno, quasi incoscientemente, esercito il polso, senza accorgermi, tenendolo in allenamento per la partita successiva.
Il lavoro è scarso, molto meno degli anni precedenti. La crisi del ’96, nel sud est asiatico, inizia a farsi sentire anche in Viet Nam. Il tempo passa. Finisce la stagione secca ed inizia quella piovosa, ma il monsone, a Sai Gon, non è violento come nel delta.

La storia di Paul e Nai, la schiava, morta soffocata nell’incendio: un amore finito troppo presto.

Una mattina viene a trovarmi un signore con un mazzo di fiori in mano, e mi chiede di poterli depositare all’ ultimo piano dove ora si trovano la mia camera da letto ed il soggiorno.
Sono occupato, non gli chiedo chi sia e perché voglia portare lì dei fiori. Nga lo accompagna. Dopo una decina di minuti la giovane ritorna in ufficio e mi porge un biglietto da visita. Il visitatore si chiama Paul ed è francese. Ci presentiamo, ed egli mi narra il motivo della sua visita.

«Circa una decina di anni fa, subito dopo il “doi moi”, sono venuto in Viet Nam, per vedere se vi erano possibilità di lavoro. La situazione prometteva bene, le possibilità di fare affari erano molte. Non avevo ancora un ufficio, ma abitavo non molto lontano da qui. In questo edificio vi era un karaoke che apriva alla sera e non chiudeva troppo tardi. Sai Gon allora era diversa, i luoghi dove trascorrere il tempo libero non erano molti come ora, e la vita notturna era povera.
Venivo in questo karaoke, mi piaceva e mi piace cantare. Il locale era bello, pulito, e servivano whisky, cuba libres, ed altri cocktails. Qui ho conosciuto Mai. Mi serviva da bere, parlava poche parole d’ inglese ed era gentile. A volte cantavamo assieme canzoni country o di Johnny Cash. La nostra preferita era “The ring of fire”. Ci siamo innamorati, almeno io di lei. Tutto era pronto per le nozze, ed avevo già racimolato la somma per pagare il suo padrone, perché la lasciasse libera. Ero convinto che Mai sarebbe stata una moglie perfetta.

Mai era una delle nove ragazze che lavoravano in quel locale, e, terminato il lavoro, venivano chiuse a chiave all’ ultimo piano perché non se ne andassero. Il karaoke era per loro una prigione.

Le ragazze che intrattenevano pure i clienti, dovevano pagare il vitto e l’alloggio, oltre le spese per esser state portate a Sai Gon dal delta, dai monti o dalla campagne. Le mance che ricevevano dovevano essere versate al padrone ed il salario che ricevevano non bastava loro per vivere dignitosamente. Insomma la schiavitù era una schiavitù lunga: difficilmente riuscivano a liberarsi. Mi misi d’accordo con il padrone, un cinese, su quanti soldi avrei dovuto dargli per portare via Mai. Molti. Mi misi a risparmiare.

Mancava poco perché Mai venisse a vivere con me, ma una notte scoppiò un incendio, e tutte le nove ragazze morirono soffocate dal fumo.
Il padrone apri un karaoke in un’altra parte di Sai Gon.
Dopo la tragedia abbandonai Sai Gon ed il Viet Nam. Vivo in Africa, in Senegal, ed è la prima volta che ritorno per portare i fiori a Mai. Non l’ho dimenticata.»
Paul mi mostra la foto di Mai, scattata nel parco di fronte. E’ una bella ragazza in “ao dai” bianco. E’ alta, assomiglia a Nga, sicuramente è del nord. Sorride, pensando ad un futuro felice.

Rivedo Caroline e Chin, e so che gli spiriti di quelle ragazze e di Nai, morte lì, nell’incendio, sono lontani…

Quando  racconto a Caroline la storia di Paul e Mai rimane stupita, senza parole, chiama subito il geomante e lo va a prendere a Cho Lon.
Chin arriva e visita con calma ogni stanza, soffermandosi in alcuni punti per sentire se vi siano presenze.
Infine ci rassicura. «Gli spiriti delle ragazze, non sono più qui. – ci dice- Non li ho sentiti la prima volta e non li sento ora. Le ragazze sicuramente si sono reincarnate e vivono altre vite, ma la tragedia accaduta non porta del bene all’essitenza ed agli affari di chi vive e lavora qui. Ti consiglio di trovare al più presto un altro edificio. Caroline ti aiuterà in tal senso ed io farò del Feng Shui, d’ora in poi, facendo più attenzione ad eventi accaduti in passato» – termina.
Ma a me non passa nemmeno per la testa di chiedere a gente che vive a Milano di cambiare gli uffici perché un geomante cinese di Cho Lon lo consiglia.

La vita continua, così, come prima. Non cambio ufficio, continuo a giocare a “badminton” al mattino, molte sere ceno con Caroline che mi racconta la sua storia.

«Mio padre era cristiano, cattolico; mia madre lo divenne dopo il matrimonio. Sono stata battezzata, comunicata e cresimata a Notre Dame.».
Ritornata in Viet Nam, dopo gli anni trascorsi in Francia, Caroline si convertì al buddismo ed ora crede nella reincarnazione. A Parigi, un paio di anni fa, aveva frequentato un signore che con l’ ipnosi faceva ricordare vite passate, ma dopo due sedute non aveva retto. Non le chiedo cosa la sconvolse o l’annoiò.

Trascorro un lungo week end nel delta. Visito i luoghi dove visse Marguerite Duras giovane, My Tho, Vinh Long, Sa Dec. E mi reco, pure, a visitare la casa dell’amante cinese di Margherita.
Ogni giorno gioco, sempre meglio, a “badminton”, a volte vinco, e mi rifiuto, categoricamente, di fare “tai chi”, come Caroline mi consiglia: ritengo non faccia per me questa ginnastica orientale.

Poi la crisi si fa pressante, lavoro e soldi vengono a mancare, ritorno a casa … dopo 5 anni in Viet Nam.

Poi tutto inizia a “correre veloce”, e la situazione economica precipita. È un crollo.
Progetti vengono annullati, ritardati, interrotti. Grattacieli, un ponte, parcheggi sotterranei, nuove fabbriche e strade per il futuro, svaniscono.
Da Milano mi dicono di chiudere. Non sono felice di abbandonare quella vita e gli amici, sono da cinque in Viet Nam, ma i soldi per andare avanti iniziano a mancare.  Prima di Natale prendo l’ aereo per trascorrere alcuni giorni a Kuala Lumpur e poi raggiungere Venezia…  

 Francesco Cecchini

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 L’immagine che correda l’articolo è tratta, solo per questo motivo, da: www.mekongdeltatours-saigon1.jpg, e rappresenta, come mi ha detto Francesco, la facciata del più grande mercato al coperto della città di Sai Gon.

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