Questo articolo doveva esser scritto molto prima, in concomitanza con la mostra di immagini ed il ricordo di Umberto Candoni a Tolmezzo e Pesariis, tenutosi nel dicembre 2022- gennaio 2023, ma non ne ho avuto il tempo. Così provo a stenderlo oggi, con in mano il volume di vari autori e curato da Giorgio Ferigo e Marco Lepre: “Così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni”, Forum editrice, Ud, 1999, ricordando, in premessa, che fare il fotografo ai tempi del nostro era in particolare saper padroneggiare una tecnica il che permetteva di diventare un professionista dell’immagine, mestiere che però, da solo, spesso non dava da vivere.

Per questo troviamo in Carnia, prima della seconda guerra mondiale, fotografi che integravano questa loro attività con altre più sicure e remunerative. E così Beppo di Marc (Giuseppe Di Sopra di Stalis di Rigolato), che si definiva un operaio, faceva, per mantenersi, anche l’assistente in lavori edili; così Umberto Candoni che svolse diversi mestieri sempre in ambito edile, portandosi anche all’estero fino al secondo dopoguerra, quando i tempi cambiarono e poté dedicarsi interamente alla fotografia; così Amedeo Zanier, sempre di Rigolato, personalità poliedrica che fu industriale, inventore, e fotografo per diletto e testimone dell’avvento del progresso; così Vittorio Molinari di Tolmezzo, commerciante in primo luogo; così Beniamino Fruch (detto Bene di Minòt), che faceva anche il calzolaio e Giuseppe Burba, fotografo in Ampezzo che, per vivere, aveva gestito il servizio taxi del paese, aveva avuto, per un periodo, una pescheria, aveva svolto la raccolta rifiuti e aveva eseguito trasporti con vari automezzi di sua proprietà, tra cui un trattore. (1).

Ma forse Candoni avrebbe voluto fare solo il fotografo prima che il fascismo glielo impedisse, costringendolo pure ad abbandonare nuovamente la Carnia, come vedremo poi.


Umberto Candoni osserva il suo lavoro. Da: AA.VV. così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni, (a cura di Giorgio Ferigo e Marco Lepre), Forum ed., 1999, p. 5.

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Il primo aspetto che mi pare interessante da sottolineare è che il fotografo era un ‘mestiere accreditato’, ma che spesso non aveva come fine l’esprimersi del professionista dell’immagine, ma il confezionare, diciamo così, un prodotto che accontentasse, in primo luogo, l’utenza e che non doveva costare molto, visto che la gente di paese di soldi talvolta non ne aveva molti.  

E così scrivevo anni fa, riprendendo alcune righe di Italo Zannier: «Con l’andar del tempo, come abbiamo già visto, il fotografare si era trasformato in un vero e proprio mestiere a carattere artigianale e quindi, in sintesi, in una professione.  L’arte di fotografare “bene”, cioè seguendo canoni precisi, veniva appresa attraverso il garzonato presso le botteghe esistenti.

All’apprendista non venivano richieste particolari qualifiche culturali bensì buona volontà, meticolosità ed un po’ di senso commerciale il che significava disponibilità assoluta nei confronti dei desideri della clientela, specie nella ritrattistica». (2).

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Quindi anche chi voleva imparare il mestiere del fotografo andava garzone a bottega da un maestro, che gli insegnava, passo dopo passo, l’arte di inquadrare, stampare, correggere l’immagine, ritoccarla. E questo accadde anche ad Umberto Candoni, ma non sappiamo da chi apprese l’arte di fotografare e stampare che sappiamo, dalle immagini del funerale di Albino Candoni da me pubblicate sul mio: “Gorizia tu sei maledetta. Noterelle su cosa comportò per la popolazione della Carnia, e non solo, la Prima Guerra Mondiale, detta «la Grande Guerra»”, Andrea Moro ed. 2016, avere già saldamente in mano nel 1921, quando, presumibilmente, aveva aperto uno studio fotografico in comune di Tolmezzo (3).

Ed anche Umberto Candoni divenne, poi, a sua volta, maestro. E ad ogni maestro l’allievo doveva tributare il massimo rispetto e Candoni non fu da meno nel richiederlo ai suoi allievi.

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Quanto la fotografia risentisse della cura degli aspetti tecnici ce lo racconta Mauro Agarinis nel suo “Candoni maestro di fotografia” (4), in cui l’autore parla della sua esperienza di garzonato nello studio che Umberto Candoni aveva aperto a Comeglians negli anni cinquanta, che formò ben 4 fotografi poi professionisti: lo stesso Mauro Agarinis di Ovaro; Luigi Gardel dello stesso paese; Gino Del Fabbro di Forni Avoltri e Dino Dario di Maranzanis, frazione di Comeglians. Non fu cosa da poco, – scrive Agarinis- in quei primi anni del dopoguerra, «caratterizzati ancora da una mentalità conservatrice e “chiusa”, riuscire a coinvolgere dei giovani in una professione tutto sommato ‘nuova’, nonostante fossero trascorsi 100 anni dai primi esperimenti di fotografia». (5).

E Candoni narrava pure ai suoi allievi di aver affinato, nel suo peregrinare di esiliato perché anarchico ed antifascista, in particolare a Parigi, «la tecnica di ripresa, quella di stampa, di ritocco e di presentazione della foto». (6).

Ed infatti Noè D’ Agaro di Rigolato ci narra di aver incontrato proprio a Parigi Umberto Candoni, carnico come lui, che aveva anche lì approntato uno studio fotografico presso la sua abitazione «Nella casa francese di Umberto Candoni vi era anche il suo studio fotografico, ed era uno studio ben attrezzato, con fotografie e ricordi della Carnia. E c’era una foto bellissima di un crocefisso in un crocicchio ed un ritratto dell’Arcivescovo Giuseppe Rossi, almeno mi pare fosse lui. E detta fotografia aveva anche la dedica». (7).

Rolleiflex 2.8 D 6×6 TRL type K7D with Carl Zeiss Planar 80/2.8 EXC (Da: https://www.ebay.it/itm/334857146919 ….).

Ed ancora sempre Noè: «Mi ha raccontato perché si trovava in Francia. Egli era un fuoriuscito, uno di quelli fuggiti dal fascismo. Prima di passare la frontiera italo- francese, abitava a Tolmezzo, dove aveva il suo studio fotografico. Ma ad un certo punto erano arrivati in casa i fascisti, ed avevano buttato dalla finestra tutto ciò che aveva, ed egli aveva dovuto scappare, scappare … Insomma aveva dovuto scappare a causa del fascio. Ed aveva una grande, una tremenda nostalgia della Carnia …

E quando l’ho incontrato, forse nel 1934, era già da un po’ di anni in Francia, a Limoges, e si era stabilito lì. Sua moglie forse era morta di crepacuore, di dispiacere per quello che era accaduto, ed egli viveva con una bellissima polacca. (…). Ed abbiamo parlato del più e del meno, ed anche di politica. Ma non sapevo né so se facesse attività politica in Francia. E poi l’ho visto ancora un due o tre volte a Villenueve le Roi, perché lì vi erano molti italiani. E ci siamo rivisti anche nel secondo dopoguerra, perché eravamo ambedue soci della Cooperativa Carnica». (8).

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Agarinis, nel suo articolo già citato, riporta in modo analitico l’organizzazione dello studio fotografico di Candoni a Comeglians, con annesso negozio espositivo, atelier, camera oscura e luogo ove trattare le immagini. Da questa descrizione si notano sia la genialità anche a livello tecnico del fotografo carnico, che aveva ricavato un bromografo da un vecchio comodino adeguatamente modificato, sia la cura con cui trattava le immagini ed il ritocco, anche per togliere il contrasto troppo acceso tra il chiaro e lo scuro ed i difetti che venivano sottolineati dalle lampade elettriche di studio. (9).

«Il negozio fungeva da ricezione, esposizione delle foto, delle macchine fotografiche, dei film, dei prodotti chimici per i trattamenti. La sala di posa era utilizzata per le riprese di gruppi familiari e di soggetti singoli, il ragazzotto o la signorina tirati a festa, le classiche foto da prima comunione, i bambini in tenera età, le foto per la tessera, ecc.». (10).

Ma un vero salto epocale Umberto Candoni lo fece quando, come tutti, passò dalla lastra alla pellicola, affinando tecniche, passando alla macchina fotografica tedesca ‘Rolleicord’ e quindi, negli anni cinquanta, alla Rolleiflex, e dotando lo strumento di lavoro in un primo momento di lampade a flash, che si bruciavano ad ogni immagine e dovevano venir sostituite dopo ogni scatto, per poi passare ai flash elettronici, più maneggevoli e utilizzabili per più scatti. (11).

Negli anni cinquanta, inoltre, Candoni sostituì il fondale dell’atelier, rappresentato da un dipinto raffigurante giardini, colonne, balaustre, come si usava negli anni trenta, con tende neutre, iniziando ad utilizzare, per l’illuminazione, quelle lampade da 300 watt montate su parabole a cui ho già accennato. (12). L’ introduzione della luce artificiale per illuminare l’interno dello studio fu, per i fotografi, una innovazione epocale dovendo, in precedenza, come ci mostrano sia Giuseppe Di Sopra che Vittorio Molinari, utilizzare la luce naturale da finestre o fotografare all’aperto, possibilmente in una giornata di sole. (13).

Foto di Umberto Candoni di copertina del volume AA.VV. così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni, cit. pubblicata poi anche a p. 40 del volume con didascalia: “Curiosando. Liariis, estate 1964”. Ma è evidente che la bimbe stanno ascoltando una signora, che qui poco si vede.  

Così Agarinis descrive il modo di fotografare del maestro Candoni: egli toglieva alle immagini possibili imperfezioni ed addolciva i lineamenti, eliminando contrasti troppo forti e iniziò, negli anni cinquanta, a fare reportage che documentavano cerimonie di vario tipo e matrimoni dall’inizio alla fine. E, libero dai forti condizionamenti tecnici precedenti, anche in questi servizi «ebbe modo di esprimere la sua creatività documentativa, ritraendo maestri di professioni ed allievi di scuole, attività culturali e maestri di ginnastica». (14).

Perfezionista, Umberto Candoni fu pure un “critico spietato” di sé stesso, e guardava, in particolare, la scelta dell’atteggiamento, la coerenza e l’armonia delle posture, e quando incontrava un fotogramma per lui perfetto, «annuiva soltanto, ma dai suoi occhi nascosti dalle folte sopracciglia, si sprigionava una luce particolare …» (15).

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Quello che a me pare importante, dalle fotografie pubblicare sul volume “Così vicina, così lontana, La Carnia di Candoni, cit. è la spontaneità degli atteggiamenti dei soggetti ripresi, in particolare bimbi, quasi a cogliere “l’attimo fuggente”, il che richiedeva la negazione della posa, aspetto non di poco conto, ed anche fermezza della mano ed occhio pronto. Vedo e scatto. Perché quell’attimo non sarebbe ritornato più.

Altro aspetto interessante è la cura del contesto, dello sfondo, dell’inquadratura, elementi basilari per una buona fotografia. Per esempio chi ha presentato, nel volume sopraccitato, le pagine dedicate a “Mularia”, parlando della foto pubblicata alle pp. 22 e 23 del volume, ritiene che al Candoni fosse sfuggita la «bambina ai margini del quadro che si aggiusta la gonna dall’elastico in vita troppo lasco» (16), ma io non concordo con lui. Invece l’immagine di quella bimba ed anche di un’altra vicino alla stessa, permettono che l’occhio di chi guarda scivoli, naturalmente, dal frontone della chiesa, massiccio, verso quella bambina, quasi sfocata, che permette di segnare la linea prospettica laterale e la centralità degli sposi. Ed è questa una immagine tecnicamente, a mio avviso, bellissima, ma di cui malamente si coglie l’insieme essendo stata spezzata in due nel volume.

Foto di Umberto Candoni, pubblicata 2 volte su “AA.VV. così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni, op. cit.” la prima volta a pp. 22 e 23 spezzata, la seconda a p. 110 con didascalia: “All’uscita della chiesa. Liariis. 5 settembre 1964” . (Da una locandina di invito agli incontri sul noto fotografo programmati da dicembre 2022 ai primi di gennaio 2023). É l’immagine ove è presente la bimba che si aggiusta la gonna.

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Inoltre, come ho già scritto, si potrebbe dire che in alcune foto pubblicate vi è la negazione della posa, in altre si intravede una posa che pare spesso studiata, come del resto accade anche per le immagini del ritrattista Giacomo Segalla (17). E Candoni, secondo Agarinis, era uomo che amava cogliere gli atteggiamenti spontanei, come del resto traspare, pure, in molte immagini pubblicate, ed era dotato di “creatività documentativa”. (18).

Insediatosi a Comeglians, egli viene sempre più «chiamato a ritrarre cerimonie e momenti di vita collettiva ed allestisce alcune mostre di paesaggi e ritratti». (19).

Per quanto riguarda la datazione delle immagini pubblicate, esse risultano scattate nel 1964, sono, se ben ricordo, essendo allora del gruppo Gli Ultimi, su pellicola, sono in bianco e nero, come si suol dire, ma più realisticamente sono stampate in toni di grigio.

Manca però, in questo volume dedicato ad Umberto Candoni una lettura del fotografo attraverso le sue immagini, mancano i criteri utilizzati per scegliere le immagini da pubblicare, a fronte di più rullini, manca una descrizione analitica dell’archivio pervenutoci, che si limita ad alcune righe di Marco Lepre (20), manca qualche didascalia più esaustiva, dato che i singoli scatti sono datati ed il luogo evidenziato. Inoltre a me alcune scelte grafiche paiono discutibili come quella di scrivere l’inizio di testi in caratteri quasi illeggibili di colore bianco sopra la stampa della fotografia; quella di pubblicare una foto su due facciate, di fatto spezzandola; quella di utilizzare caratteri sottili e minuscoli per le didascalie, in seppia e quasi illeggibili. Infine io non avrei scelto quelle bimbe viste da dietro per la copertina perché, a mio avviso, non dicono nulla. Infatti non paiono curiose, ma invece in ascolto di una signora, che si intravede.

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Ma per ritornare alle fotografie di Candoni ed al volume di riferimento per questo articolo, alla fine del lungo excursus storico, dettagliatissimo e documentato, sulla vita politica del fotografo, Marco Puppini ci dona qualche riga sulle immagini pubblicate, e così scrive: «Le foto di questo volume sono parte della produzione, forse quella meno curata ed ‘ufficiale’ ma pur sempre conservata dal nostro nel suo laboratorio. Foto che hanno proprio interesse per questo loro carattere di «produzione» minore». (21).

Ma forse quelle immagini, custodite gelosamente, Candoni le aveva scattate per sé, ed a mio avviso sono curatissime, come del resto tutte le sue, (come ci ricorda Agarinis), ma colgono, più di altre, ‘attimi fuggenti’: il prete che si sistema la cotta nel corso di un funerale e non corteo, (22); donne e uomini che portano una bara al camposanto ed il prete che unico, ha un ombrello (23); i bambini dell’asilo con i loro cappellini bianchi e gli occhi colpiti dal sole già alto e, sullo sfondo, il paese di un tempo con qualche accenno ad una ‘modernità’ architettonica che mal si armonizza con il contesto, senza presenza alcuna di automobili che disturbino il cammino di quella fila a due per due. (24).

Foto di Umberto Candoni. Immagine pubblicata a p. 53 del volume “AA.VV. così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni, op. cit.” con diascalia: “Le portatrici”. Cedarchis. 30 novembre 1964. ((Da una locandina di invito agli incontri sul noto fotografo programmati da dicembre 2022 ai primi di gennaio 2023).

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Magnifico nella sua realtà e spontaneità appare poi il quadretto dei bimbi riuniti intorno ad un tavolo per un compleanno (25), mentre è da apprezzare veramente il bilanciamento dei piani e l’inquadratura nelle immagini alle pp. 30-31 del volume, oltre allo studio sapiente del cadere della luce nella prima, che solo un valente fotografo con il pieno possesso del mezzo e della tecnica avrebbe potuto realizzare. Ma anche la bimba con il vestitino bianco che si bilancia aprendo le braccine e volgendo forse alla madre, con sullo sfondo le gambe ed il bastone del vecchio e la coda di un’auto, e che riempie tutto lo spazio dall’alto in basso con il suo corpo, è meravigliosa. (26).

Non solo: guardando la foto in basso a p. 54, pare di ‘sentire’ il peso della croce; a p. 58 viene, con uno scatto, descritta la tecnica per calare nella terra la bara, ma anche viene ritratto un uomo che guarda se la manovra sta andando a buon fine; a p. 55 le spalle curve della donna e dell’uomo in primo piano, ripresi da dietro, pare richiamino quelle di chi porta il peso del morto; l’immagine dell’operaio con il filo a piombo in mano, a p. 72, ci permette quasi di immedesimarci in quell’azione.

E così Marco Lepre: «Di queste foto, scattate è bene ricordarlo, da un uomo che ha superato l’ottantina, colpiscono l’immediatezza e la grande capacità si trasmettere emozioni, quasi non ci fosse stata nessuna difficoltà o disagio ad utilizzare a pieno la possibilità che i nuovi mezzi tecnici consentivano» (27) rendendo vive le persone ritratte. Io però più che di emozioni parlerei di sensazioni.

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La magrezza assoluta delle didascalie e la chiave di lettura data dai curatori Ferigo e Lepre ad alcune immagini, pone talvolta qualche problema a chi guarda il volume. Per esempio, io non so come si possa intitolare l’immagine a p. 41 “Irrequieti in chiesa”, quando rappresenta bambini con posture po’ rilassate seduti su di un banco, con dietro madri o nonne o donne del paese pronte ad intervenire ad ogni minimo segno di reale irrequietezza. Semmai questa foto risulta interessante per dove il Candoni, ed in questo è maestro, fa cadere l’occhio di chi guarda, su quel ragazzetto con la mano in tasca ed una appoggiata disinvoltamente ai genitali, senza malizia alcuna, che guarda, come altri, verso il fotografo. E questo ‘guardare verso il fotografo’ è proprio di soggetti di varie immagini pubblicate, che proprio lo scatto immediato non riesce ad impedire, in quanto moto istintivo.

Inoltre non so come si possa intitolare l’immagine delle due signore presenti ad un matrimonio a p. 116: “Noçadors” e così la seguente e via dicendo, quando, ammesso che si riesca a leggere questa parola, ben pochi ne capiscono il significato, e non rende in modo assoluto l’anima delle immagini. E credo francamente che questa didascalia avrebbe ricevuto dal Candoni una severa critica. Era davvero preferibile non scrivere nulla. Perché molto spesso le immagini parlano da sé. Invece la foto delle due signore avrebbe meritato, semmai, due righe sull’inquadratura, sapiente, come quella della foto successiva a p. 117, che ricordano, per certi versi, le inquadrature di Beppo di Marc, e quindi un modo antico di fotografare, ma allo stesso tempo moderno.  

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Foto di Umberto Candoni. Immagine pubblicata a p. 62 del volume “AA.VV. così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni, op. cit.” con diascalia: “Sul Degano. Segheria Margò. Estate 1964. La fluitazione”. Non è però l’immagine della fluitazione che a me è piaciuta di più. (Da una locandina di invito agli incontri sul noto fotografo programmati da dicembre 2022 ai primi di gennaio 2023).

Francamente a me non dicono molto le foto relative al lavoro del muratore ed alla fluitazione, allora in via d’estinzione, e le ritengo, globalmente, le meno interessanti di questo volume, anche se alcune sono notevoli dal punto di vista tecnico e per l’inquadratura. Si noti per esempio la migliore, secondo me, fra quelle della fluitazione sul Degano: la luce delle acque in primo piano va lentamente scemando fino a giungere allo scuro degli alberi sullo sfondo, guardando, a destra, creando un effetto tridimensionale.  E questa è pura tecnica.

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Le fotografie di matrimoni (28) sono vivaci e hanno un pizzico di anticonformismo, come quella, a p. 107, in cui lo sposo muove il braccio. Ed anche qui notiamo lo studio della prospettiva in Candoni, che porta a ‘vedere’ la fotografia in senso tridimensionale. Il punto di vista da cui si irradiano gli assi prospettici origina dalle figure sfocate in fondo all’immagine, guardando a sinistra, quindi ‘la piramide’ si allarga fino a raggiungere la sua massima ampiezza negli sposi, nel personaggio vicino ad essi, in quel muro massiccio di abitazione bilanciato, a destra, da un vuoto pavimentale che inquadra ed aumenta lo spazio visivo.

Questo è per me Umberto Candoni: un altissimo studioso della luce, quasi un ‘Caravaggio’ della fotografia, e delle prospettive.

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Quindi sul volume si trovano altre immagini spontanee e vivaci, quelle di un carnevale, di balli, della Shell di Ovaro e altre ‘di modernità’, ove si nota pure il Candoni ritrattista, ma, secondo me, tecnicamente non sono esaltanti e pare, in quelle relative ad un ballo come in alcune di interno in matrimoni, non so perché scelte per la pubblicazione, che egli abbia sofferto per l’ambiente troppo scuro (29) e la mancanza tecnica, non solo per lui, di poterlo illuminare in altro modo.  

Infine le fotografie di una festa dell’Unità a Pieria di Prato Carnico, sempre datata 1964 (30), che potremmo porre tra le immagini di fotocronaca, e che fanno rimpiangere a noi, che abbiamo una certa età, una Carnia più vivace e battagliera, mentre ora appare assopita e rassegnata ad ogni calamità imposta dall’alto. Fra queste immagini risulta molto spontanea e ben riuscita quella a p. 139, ma che avrebbe potuto esser stata scattata in una qualsiasi festa, in una qualsiasi sagra.

Le immagini finali del volume, raccolte sotto il titolo: “Il vôli e la vita ch’a va”, sono ancora esempi di ritratti in posa, che raccontano tempi passati che se ne vanno, come quella con il ‘gue’ l’arrotino a p. 152, o quelle dei due soggetti fotografati alle p. 150 – 151, che rappresentano persone ancora volte al passato, mentre altre guardano ad un futuro che sarebbe però sparito velocemente visto l’incalzare dei tempi. Fra queste si ritrova, in quella che ritrae l’interno della corriera Tavoschi con una sola passeggera ben visibile, una marcata prospettiva, che fa apparire quasi il mezzo in movimento. Insomma si ritrova il maestro Candoni.

Infine la povertà di certi ambienti fotografati, riporta alla mente il successivo servizio di Riccardo Toffoletti, rigorosamente in bianco e nero, sulle Valli del Natisone (31).

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Foto di Umberto Candoni, pubblicata a p. 87 del volume AA.VV. così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni, op. cit.” con diascalia cumulativa con altre due immagini: “Scuola di Avviamento Profesionale di Tolmezzo. 1963-1964. (Da una locandina di invito agli incontri sul noto fotografo programmati da dicembre 2022 ai primi di gennaio 2023).

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Candoni, un uomo di ideali.

Inizio queste poche righe su Umberto Candoni come persona, invitandovi a leggere, (magari dopo aver preso il volume qui di riferimento “AA.VV. così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni, op. cit., in biblioteca) l’interessantissimo saggio del mio gemello Marco Puppini intitolato “Ed è per voi sfruttati… “che parla dell’uomo Candoni, del suo rigore e della sua fede politica, dei suoi ideali massimalisti ed anarchici che lo portarono ad essere un braccato dal fascismo, un uomo in fuga, uno a cui ogni oggetto domestico, acquistato con il sudore della fronte e gelosamente custodito dalla moglie, venne gettato in strada, lasciandolo senza il frutto del suo lavoro. Ma le squadracce fasciste erano così, e vivevano di dileggio, violenza, tortura e assassinio di coloro che ritenevano nemici solo perché volevano un pane ed un tetto per tutti.

Bandiera nera anarchica. (Da: https://www.anarcopedia.org/index.php/Simbolismo_anarchico#/media/File:Black_flag_waving.png).

Negli anni cinquanta, Umberto Candoni, remando contro corrente come era suo stile, si proclamava “cittadino del mondo”, sposando ancora una volta quell’internazionalismo che stava scomparendo dal mondo come ideale (32). Nel 1948 fondava, in un contesto difficilissimo per la sinistra ed i partigiani dopo l’avvento della Dc al potere, il Movimento Friulano Pro Pace Universale, che, per inciso, sarebbe anche oggi da riproporre, sostenendo la fratellanza fra i popoli anche italiano e jugoslavo. E diceva che, se i ‘grandi’ avessero riproposto, in un qualche momento, una situazione di un popolo contro l’altro armato, in nome di una nuova divinità guerriera, «noi sapremo gridare il nostro cosciente e potente No». (33).

Nel corso delle vicende che toccarono la Cooperativa Carnica per la nomina della nuova dirigenza, sostenne la collaborazione fra cooperatori, ma in un clima pure di critica serrata, civile, severa. «Solo con uomini liberi da ogni odio e da ogni rancore, nella concordia e nella fraternità, la famiglia dei Cooperatori Carnici potrà serenamente vivere ‘sotto la tenda della pace”» – sostenne allora. (34).  

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È difficile dal volume cogliere l’evoluzione del pensiero di Candoni, forse perché gli elementi reperiti dagli autori sono frammentati qui e là, ma siamo sicuri che anche le peripezie della guerra lo portarono ad essere profondamente pacifista, libertario e favorevole alla non violenza.  

Marco Puppini scrive che Umberta Candoni, dopo aver svolto il servizio militare nel 1905-1906, iniziò a manifestare idee sovversive, socialiste ed anticlericali, e, nel 1908, fu colto a distribuire copie dell’opuscolo: “L’antimilitarismo spiegato al popolo”. Successivamente il Candoni sposò sempre più l’dea di una liberazione sociale che doveva nascere dal basso, utilizzando l’arma dello sciopero. (35).  

Nel 1919 diresse la Camera del lavoro, essendo dell’area socialista massimalista, ma quando, nel 1921, fu creato il P. C. d’Italia non vi aderì. Fondò invece una sezione dell’USI carnica e la Federazione Libertaria Carnica, mostrando, in modo palese, la sua adesione al movimento anarchico, a quell’anarchia dalle nere bandiere che aveva già trovato, in Val Pesarina, un alto numero di seguaci. E al movimento anarchico chiederà aiuto giunto in Francia, quando sarà costretto ad emigrare, nel 1932, senza documenti, ma con un viaggio pianificato. (36).

E se Noè D’Agaro non sa se Umberto Candoni abbia svolto attività politica anche in Francia, Marco Puppini scrive, invece, che egli, nel 1937, fu eletto consigliere della Federazione anarchica parigina. (37).

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Simbolo della pace, creato nel 1958. da Gerald Holtom. (Da: https://www.wired.it/play/cultura/2014/02/21/nascita-simbolo-pace/).

Candoni legge Malatesta (38) ma è pacifista, tanto che, quando, il 19 febbraio 1939 tiene una conferenza a Parigi presso il cafè Chope de Strasbourg, sulla “Libertà dei popoli”, da alcuni presenti gli viene contestata la lontananza dalla «concezione sovvertitrice e distruttrice anarchica originaria» (39). Si avvicina poi alla teoria della lotta non violenta, prendendo a modello Tolstoj, Ghandi, Beltrand Russel, Albert Schweitzer, Martin Luther King, che ora i giovani neppure sanno chi siano stati. E fotografa, lavora e legge: Marx, Victor Hugo, la Bibbia, Epoca, l’Unità, la Stampa e il Corriere della sera, mentre nel suo laboratorio fotografico tiene incorniciati i ritratti di Garibaldi e Mazzini, che ancora una volta ritorna nella storia di un grande carnico, come era accaduto per Romano Marchetti. E in: https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/13398-candoni-umberto, si trova anche un riferimento, in nota, ad un libretto da lui scritto dal titolo: “La scuola del bene e del male”, edito a Comeglians nel 1950.

A fine anni sessanta avrebbe voluto creare, in Comeglians, e questo lo scrivo a memoria, un centro di produzione e raccolta di fotografie sulla Carnia e di carnici, ma il suo credo politico, da che si narrava, fermò il progetto, privando la nostra terra di quell’ultimo dono che avrebbe voluto farci. Quando troverò fonte, se la troverò, sarò più precisa.

Infine ricordo a chi si domandasse perché Candoni non abbia fotografato scioperi e manifestazioni, che era molto rischioso per chi vi partecipava essere fotografato, perché poi poteva venir identificato ed avere delle noie. Non per nulla anche ora, però solo i più facinorosi, si coprono il viso. Ma negli anni in cui visse Candoni, ed anche negli anni ’50 e ’60, per alcuni soggetti, anche pacifici, esser riconosciuti tramite uno scatto poteva esser pericoloso. Ed erano, da che si legge, la polizia ed il padronato che infilavano persone nelle manifestazioni a segnare presenti ed a scattare fotografie  E poi Umberto Candoni non era un fotocronista, era un fotografo di atelier. 

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Per ora mi fermo qui. Se non vi piace questo articolo, fatemelo pure presente con critiche pertinenti. Se sapete darmi una dritta, una fonte, su quel centro fotografico che Candoni voleva creare, vi prego di comunicarmela. E ringrazio chi ha scritto e curato questo volume perché ha dato un importante contributo culturale. Io sono stata nel gruppo Gli Ultimi dalla sua nascita fino al 2007, e mi sento di ribadire il valore e l’importanza del contributo che abbiamo dato per la salvezza della cultura locale.

Laura Matelda Puppini

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NOTE.

(1)   Per il fotografo Giuseppe Burba cfr. il mio su www.nonsolocarnia.info: Alla scoperta di un fotografo quasi dimenticato. Riemerge l’archivio di Giuseppe Burba, ricco di momenti, eventi, fatti, scorci.

(2) Italo Zannier, Storia della fotografia italiana, Editori Laterza, 1986, p.64.Citazione da me riportata nel mio: Due o tre cose che so di lei: Il fotografo, un mestiere accreditato, in: www.nonsolocarnia.info.

(3) Noè D’Agaro. Storie di vita e di Cooperative, in: www.nonsolocarnia.info.

(4) Mauro Agarinis, Candoni maestro di fotografia”, in “AA.VV. così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni, Forum ed., 1999, pp. pp. 22- 26.

(5) Ivi, p. 22.

(6) Ibidem.

(7) Noè D’Agaro, op. cit.

(8) Ibidem.

(9) Mauro Agarinis, op. cit., pp. 23-24.

(10) Ivi, p. 23.

(11) Ivi, p. 25.

(12) Ivi, p. 23.

(13) Laura Matelda Puppini, Vittorio Molinari commerciante, tolmezzino, fotografo, Gli Ultimi, Cjargne Culture, 2007 e, su www.nonsolocarnia.info, i miei: “Beppo di Marc – Giuseppe Di Sopra, socialista e fotografo di Stalis di Rigolato e Le 95 immagini di Giuseppe di Sopra, schedate per il gruppo Gli Ultimi e la fototeca della Carnia nel 1990 e non schedate, pervenute da M. e J. Gussetti e da M. Lepre.

(14) Mauro Agarinis, op. cit., p. 26.

(15) Ibidem.

(16) Giorgio Ferigo, Mularia, in: “AA.VV., così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni, op. cit., p 29. L’immagine a cui si riferisce il commento è pubblicata a p. 22.

(17) Giacomo Segalla Fotografo. L’uomo, l’artigiano, l’artista, a cura di Egidio Screm, Tolmezzo, Comunità montana della Carnia, 1999.

(18) Mauro Agarinis, Candoni maestro di fotografia, op. cit., p. 26.

(19) Ivi, p. 25.

(20) Marco Lepre, nel suo articolo: “Cosi vicini, così lontani …, in: AA.VV. così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni, op. cit., a p. 6 ricorda che “La parte più consistente della produzione di Umberto Candoni che è giunta fino a noi è comunque quella degli anni Sessanta, poco più di duemila negativi, formato 6 x 6, provenienti dal suo archivio e miracolosamente salvati […] dal Gruppo ‘GIi Ultimi’ di Tolmezzo, di cui anch’ io facevo allora parte. Lo abbandonai per l’attacco personale che ebbi da parte di due membri del gruppo per il volume su Vittorio Molinari, quando si era deciso e verbalizzato già da tempo che lo avrei curato io.

(21) Marco Puppini “Ed è per voi sfruttati …”, in AA.VV. così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni, op. cit., 20.

(22) AA.VV. così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni, op. cit., 57.

(23) Ivi, p. 53.

(24) Ivi, pp. 38-39.

(25) Ivi, p. 33.

(26) Ivi, p. 34.

(27) Marco Lepre, op. cit., p. 6.

(28) AA.VV. così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni, op. cit., pp. 101-125.

(29) Ivi, p. 120; p. 121, dove il contrato fra chiaro e scuro è tropo evidente, p. 125, p. 131. Ma anche l’immagine a p. 134 secondo me non è riuscita nel migliore dei modi. Ma in alcuni casi ci sono limiti di contesto.

(30) Ivi, pp. 136- 137.

(31) Il riferimento è al noto servizio fotografico di Riccardo Toffoletti “Dentro le valli del Natisone” rigorosamente in bianco e nero, e datato 1968.

(32) Mauro Agarinis, op. cit., p. 26.

(33) Marco Puppini “Ed è per voi sfruttati …, op. cit., p. 15.

(34) Ivi, pp. 15-16. “La cooperazione come tenda di pace è un conetto forgaito ai primi del Novecento da Antonio Vergnanini.

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L’immagine che accompagna l’articolo è una immagine che ritrae Umberto Candoni al lavoro e secondo me è molto rappresentativa del personaggio. Essa è stata pubblicata in AA.VV. così vicina, così lontana. La Carnia di Candoni, (a cura di Giorgio Ferigo e Marco Lepre), Forum ed., 1999, p. 5. L.M.P. 

 

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