Siamo all’albergo Roma, a Tolmezzo, in un lontano dicembre del 2007. Sono a presentare, con a fianco il noto fotografo Riccardo Toffoletti, l’allora ultimo mio lavoro: la cura dell’archivio fotografico di Vittorio Molinari.  (Laura Matelda Puppini, Vittorio Molinari, commerciante, tolmezzino, fotografo, Gli Ultimi, Cjargne Culture, 2007). 

Riccardo Toffoletti inizia il suo intervento parlando dei fotografi friulani, del pittorialismo e di alcuni suoi noti esponenti: Silvio Maria Buiatti, Umberto Antonelli, Attilio Brisighelli. Purtroppo l’inizio della registrazione è tardivo.

Nella storia della fotografia, con pittorialismo si indica la tendenza di molti fotografi dell’Ottocento a imitare canoni estetici propri della pittura al fine di conferire dignità artistica alle proprie opere. Più in particolare, si indica il complesso movimento (che si sviluppò nella seconda metà dell’Ottocento in Europa  per poi estendersi agli Stati Uniti) nel quale, in opposizione al diffondersi della fotografia amatoriale e puramente documentaria, veniva proposta una fotografia ‘pittorica’, teorizzando e affermando (con opere eseguite con grande perizia tecnica e sensibilità artistica, sia nella ripresa sia nella stampa) la piena validità e autonomia estetica dell’immagine fotografica, ritenuta degna di occupare un posto di primo piano nelle arti grafiche. (http://www.treccani.it/enciclopedia/pittorialismo/).

Uno dei maggiori rappresentanti friulani del pittorialismo fu Silvio Maria Buiatti, studiato anche da Riccardo Toffoletti, autore, insieme ad Italo Zannier, del volume “Silvio Maria Buiatti Fotografo” Arti Grafiche Friulane, 1989. Ma è anche un modo di fare fotografia di Umberto Antonelli, alle cui immagini è dedicato il volume. AA.VV. La Carnia di Antonelli, Centro Editoriale Friulano, 1980.

«Umberto Antonelli era nato a Padova e, laureatosi in farmacia, si portò ad Enemonzo, svolgendovi anche l’attività di fotografo. Essendo farmacista, si intendeva di problemi chimici, utili per lo sviluppo, ed amava viaggiare per la Carnia, visitandone i paesi, con una valigia in cui teneva la macchina fotografica ed una in cui teneva i vestiti caratteristici per una donna locale. Quando raggiungeva un abitato, cercava la donna più bella, la vestiva in modo perfetto, e la poneva accanto all’arcolaio, accanto alla fontana del paese, accanto ad un edificio caratteristico, e così la fotografava.
Era una fotografia costruita, costruita benissimo, ma che però ha mostrato una Carnia che non esisteva, che non è mai esistita, perché la Carnia era altra cosa.

Altro fotografo in Carnia è Umberto Candoni. Su Umberto Antonelli ed Umberto Candoni sono stati pubblicati due volumi molto importanti e dettagliati, a cura del gruppo Gli Ultimi il primo, di Cjargne Culture il secondo. Umberto Candoni aveva un temperamento diverso da quello di Antonelli, Innanzitutto era un anarchico. Esser anarchici allora voleva dire o esser bombaroli perché si doveva uccidere il tiranno, o esser pacifisti. E io credo che Umberto Candoni, anche se è stato in luoghi caldi, nei primi Novecento, sia in  Francia che in Spagna, sia stato un anarchico pacifista.

Nelle fotografie che sono state pubblicate si capisce bene il suo interesse per il popolo, per la gente, per i bambini, per le donne, per le manifestazioni popolari. Umberto Antonelli metteva in posa, Umberto Candoni coglieva al volo, e dimostra di avere una simpatia profonda verso il popolo carnico di cui era un nobile figlio, diciamo così, nobile di mentalità, per il suo pacifismo, per la sua intelligenza, per la sua capacità di cogliere immagini.

Le fotografie di Umberto Candoni ci mostrano realmente come era la Carnia 50- 60- 70- 80 anni fa. La stessa funzione che ha, in qualche modo, questo volume dedicato a Vittorio Molinari.
Molinari, rispetto a questi due esempi di fotografia carnica, mostra un’ulteriore caratteristica: la capacità della fotocronaca, come Laura Matelda Puppini ha ben delineato.

Egli fotografa in particolare negli anni ’10- ’20 – ’30, quando smette, probabilmente, come diceva Laura prima, per motivi ideologici, in quanto egli era un sincero, appassionato, convinto sostenitore dell’ideologia fascista, ed un convinto fotografo di manifestazioni fasciste. Così ci lascia immagini del sabato fascista, di varie manifestazioni nel paese, che percorrono in particolare il periodo che va dall’inizio degli anni ’20 alla metà degli anni ’30. Ed era così convintamente fascista, che ha terminato con il fascismo di fotografare la realtà del paese, quando si è accorto, forse e come altri, che il fascismo non era quella speranza in cui credeva, da “diciannovista” diremmo oggi, da fascista della prima ora, sicuro, come tanti, che attraverso il fascismo si sarebbe potuta creare una società nuova.
E credo che anche Vittorio Molinari si sia accorto, quando vennero promulgate le leggi razziste, quando le esaltazioni dell’Impero assunsero molta retorica, come il fascismo fosse diventato forma e non sostanza, superficialità senza contenuto, ed abbia smesso anche per questo di fotografare.

Ma la caratteristica di Vittorio Molinari è quella di rappresentare l’epoca fascista e quel fascismo in cui credeva, mentre oggi pochi di noi possono avere simpatie fasciste perché il fascismo non ha risolto i problemi dell’Italia. E se all’inizio vi fu chi vide nel movimento fascista una qualche positività, poi alla fine ve ne erano rimasti ben pochi.

La documentazione che ci mostra il Molinari attraverso le sue immagini riguarda la società della Carnia, di Tolmezzo in particolare, negli anni ’20 e ’30, ed allora i fotografi erano tutti un po’ pionieri ed utilizzavano un metodo di sviluppo ancora alle origini.

Vittorio Molinari usava macchine fotografiche di grande formato, che presupponevano l’uso del cavalletto, e nonostante questo, in diverse fotografie vi è una spontaneità, un diretto intervento verso le persone fotografate che ci fa dire che questa bellezza delle sue immagini, questa spontaneità è possibile solo quando il fotografo è partecipe ed interessato al soggetto che vuole rappresentare. E con uno strumento come la macchina fotografica del Molinari, pesante, è davvero difficile cogliere al volo, quasi impossibile.
Però, nonostante questo, Molinari è riuscito a rappresentare bene molte situazioni di famiglia. Egli mostra, attraverso le immagini della sua famiglia, dei suoi figli, dei suoi parenti, della sua classe sociale la stessa, quella classe piccolo/medio borghese a cui apparteneva. Non dimentichiamoci, infatti, che la fotografia nell’Ottocento, appena nata, e per molti decenni, io direi fino alla seconda guerra mondiale, è stata un mezzo che si è messo al servizio delle classi forti, delle classi che volevano essere rappresentate nella storia. E queste non erano certo le classi umili, che potevano apparire, invece, sulle foto segnaletiche.

Ma fotografi che andranno a fotografare anche con mezzi veloci ed adatti, fotoreporter diremmo oggi, perché la fotografia è soprattutto fotoreportage in certi momenti, i fotografi che andranno a fotografare i subalterni e che arriveranno alla ribalta della storia, dopo la seconda guerra mondiale, ma in rari casi anche prima, saranno davvero pochi, e saranno i migliori in giro per il mondo. E dobbiamo anche dire che tutti i fotografi che abbiamo avuto in Carnia ed in Friuli, per quanto bravi essi siano stati, sia Buiatti l’artista, sia Brisighelli sia Candoni sono fotografi che, per merito della situazione socio-politica dei loro tempi, furono in qualche modo costretti ad operare in una forma di autarchia mentale e visiva, e così si spiega anche la fotografia di Molinari, si spiega la fotografia di Buiatti, che faceva bellissimi ritratti e soprattutto bellissimi paesaggi, ed era considerato il mago delle nubi e usava veramente, come hanno usato anche Brisighelli ed Antonelli, quegli strumenti tipici della fotografia pittorica che erano gli obiettivi con le lenti morbide.

Ciò significava, poi, dover stampare le fotografie su carte che erano molto morbide, significava dare dei bagni di viraggio e farle diventare di quel marroncino un po’ particolare, significava, pure, stampare su carta che aveva la superfice vellutata, e tutto questo faceva in modo che la piacevolezza del ritratto o del paesaggio fosse aumentata. Però era forma di arte non dico decadente ma di un estetismo abbastanza scontato.

Dopo la seconda guerra mondiale capiterà che la fotografia si accorgerà della sua funzione reale con la fine dell’autarchia culturale generale propria anche del fascismo. Così nelle immagini di Umberto Candoni scattate nel dopoguerra troviamo una spontaneità che non possiamo trovare né in Antonelli che metteva in posa le persone, né in Molinari, che ha smesso di fotografare circa nel 1938.

Per ritornare a questo libro, dico solo che è stato diviso molto bene in capitoli, e che questo è stato permesso dalla versatilità del fotografo.
Ci sono delle fotografie di architettura per cui giustamente l’autrice cita la famosa scuola fotografica degli Alinari, che erano dei fotografi che hanno ripreso con grande maestria, nell’’800 ed anche dopo, fino al 1920, tutte le opere d’arte possibili ed immaginabili, soprattutto le architetture del Rinascimento italiano. E per poterle fotografare avevano veramente e solamente, nel loro occhio, un solo problema: quello di fotografare secondo una prospettiva rinascimentale.
E allora anche Molinari, quando deve fotografare il palazzo della Cassa di Risparmio, che è uno forse degli edifici più belli costruito e progettato dall’architetto Ettore Gilberti, capisce che per fotografare quell’edificio in particolare ma anche altri non si può stare ad altezza d’uomo.
Se devi fotografare gli archi della via, o se devi fotografare qualche parte di un edificio, qualche negozio esternamente allora puoi mettere la macchina fotografica ad altezza d’uomo. Ma per questo palazzo Vittorio Molinari va a cercare la finestra del palazzo di fronte, per trovarsi circa a metà dell’altezza dell’edificio da fotografare perché questo accorgimento permette una prospettiva particolarmente perfetta.
Pertanto possiamo dire che la “intenzione prospettica degli Alinari egli la conosceva, ed è un merito non indifferente perché gli ha permesso di lasciarci immagini di edifici fatte molto bene.

E poi vi è l’amore per tutti questi gruppi di famiglia ed amicali. E vi è una buona documentazione del terremoto del 1928, e c’è uno scatto che ci fa capire, pure, la sua capacità di fotocronista. Egli vede un uomo caduto, sul marciapiede, al fianco di un vicolo, e con il suo spirito documentario lo fotografa. Non si sa se sia morto, caduto, ubriaco o svenuto, ma non ha importanza … lo fotografa. Ma non tutti i fotografi di quel tempo facevano queste cose. Antonelli non avrebbe mai fatto quella fotografia. Sarebbe scappato via a cercare la donna più bella del paese da vestire e fotografare. E io credo che questo sia uno dei tasselli che migliora la storia della fotografia della nostra Regione. (…).

La fotografia da sola, da 150 anni, è capace di fare una cosa eccezionale: fermare il tempo. Ed in questo volume, che tanta fatica è costata a Laura Matelda Puppini, abbiamo fotografie che hanno fermato il tempo per 80 – 100 episodi in un arco di trent’anni.
Vittorio Molinari a modo suo era un pioniere della fotografia, era un appassionato, e dietro le sue fotografie vi è un occhio non indifferente e amante, io direi, della realtà del suo paese. Se poi avesse delle simpatie politiche di un tipo o dell’altro qui non ha importanza, perché la spontaneità dell’occhio decanta tante cose e fa nascere l’interesse in noi, oggi, di vedere come eravamo. Naturalmente questo libro sul passato dobbiamo guardarlo con attenzione, per vedere come eravamo, ma non per una forma consolatoria, non per guardare decantando il passato, le piazze com’erano le vie come erano, in Tolmezzo, ma per capire come erano per andare avanti.
Perché più conosciamo il nostro passato più sappiamo chi siamo, e più sapremo cosa potremo essere  sulla base della nostra cultura anche visiva, in questo caso grazie a Laura Matelda Puppini.

Riccardo Toffoletti.

 

 

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